venerdì 11 giugno 2010

UN' ANALISI DEL PIANO PER L’INTEGRAZIONE NELLA SICUREZZA


La strategia del Governo sull'immigrazione.
Venti paginette scarse, in cui non si parla assolutamente di diritti di cittadinanza, ma lo straniero viene visto come una presenza scomoda ma inevitabile. Il ruolo dello Stato è quello di controllare e regolamentare. E basta.
Un documento in cui le politiche di integrazione sono latitanti, tutto incentrato sul concetto del “noi e loro”.
Abbiamo provato a fare delle piccole note.

NB.
in corsivo le parti commentate
in grassetto il nostro commento
Ministero del Lavoro
Ministero dell’Interno
Ministero dell’Istruzione e delle Politiche Sociali dell’Università e della Ricerca

PIANO PER L’INTEGRAZIONE NELLA SICUREZZA
IDENTITÀ E INCONTRO

Con il presente documento si intende riassumere la strategia che il Governo, nella sua collegialità, vuole perseguire in materia di politiche per l’integrazione per le persone immigrate, coniugando accoglienza e sicurezza. Il Piano, alla luce del Libro bianco sul futuro del modello sociale promosso dal Governo lo scorso anno, individua le principali linee di azione e gli strumenti da adottare al fine di promuovere un efficace percorso di integrazione, nel rispetto delle prerogative e delle competenze dei diversi attori istituzionali interessati, nonché delle procedure previste a legislazione vigente. Il Piano si accompagna all’Accordo di integrazione, principale strumento operativo previsto dal recente “Pacchetto sicurezza”.
Come inizio non è male, soprattutto per il rimando al “Pacchetto sicurezza”, una legge che ha ben poco a che fare con l'integrazione e l'accoglienza.

LA PRESENZA STRANIERA IN ITALIA: IL QUADRO DI RIFERIMENTO
Le migrazioni dei popoli caratterizzano la storia dell’umanità fin dalla sua origine. Nell’età contemporanea, a causa degli straordinari progressi in campo tecnologico e della crescente instabilità sociale ed economica, si registrano flussi migratori sempre più robusti e difficilmente comprimibili. Anche l’Italia ha seguito queste tendenze globali e nell’ultimo decennio è divenuta paese di ingenti pressioni migratorie che ne stanno condizionando profondamente l’assetto sociale.
L’Italia, con la Spagna, nell’ultimo decennio ha visto tra i paesi dell’UE-15 i maggiori tassi di crescita di popolazione straniera che è raddoppiata fino a raggiungere oltre l’8% della popolazione per più di 5 milioni di presenze. La pressione migratoria proviene da un numero ridotto di Paesi. In Italia, infatti, risiedono cittadini di oltre 150 diversi Paesi ma di questi solo dodici superano le 100mila unità e le prime venti nazionalità raggruppano oltre 4 milioni di stranieri: un milione di immigrati dalla Romania, circa 500mila rispettivamente dall’Albania e dal Marocco, mentre quelli provenienti dalla Cina e dall’Ucraina sono rispettivamente nell’ordine di 200mila. La metà dunque degli stranieri presenti in Italia proviene unicamente da questi cinque Paesi. Ma leggendo il dato da un’altra angolazione, rileviamo altresì come la metà degli stranieri provenga dall’Est Europa, da Paesi dunque che fanno già parte dell’Unione europea o che vi entreranno in futuro.
La popolazione immigrata si concentra dove ha più possibilità di trovare lavoro, prevalentemente nel Nord e nel Centro Italia – 85% delle presenze – e nei grandi centri urbani, dove stanno crescendo quartieri ad alta concentrazione di stranieri. Ai lavoratori immigrati sono legati indici di attività e di occupazione più alti rispetto a quelli degli italiani, ma anche maggiori tassi di disoccupazione. Gli stranieri sono impiegati prevalentemente in settori a bassa qualificazione e remunerazione come l’edilizia, l’agricoltura, il turismo e i servizi di cura. Si registra poi un ingente flusso di rimesse verso i Paesi di origine, quantificato da Banca d’Italia intorno ai 6 miliardi di euro nel 2008, che evidenzia la forte interdipendenza tra gli immigrati e le comunità di origine e che sorprendentemente non diminuisce con la stabilizzazione in Italia dello straniero.
Ci si stupisce che gli stranieri continuino a spedire soldi in patria, anche se sono stabilmente residenti in Italia. Come se nel paese d'origine non avessero più familiari a cui provvedere. Questa visione evidenzia una scarsa conoscenza del fenomeno migratorio da parte dei redattori, si ignora che spesso il progetto migratorio non e individuale, ma concordato e pianificato con la famiglia, che spesso investe sul proprio componente più forte ed attivo per permettergli di emigrare nella prospettiva di rafforzare tutto il clan famigliare.

Il 75% della popolazione straniera abita in affitto, specialmente in condizioni di sovraffollamento e con una presenza crescente negli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Questo ultima notazione si accompagna all’ingresso sempre più robusto della popolazione immigrata nel circuito delle politiche sociali locali per quanto riguarda i servizi essenziali come l’alloggio, l’assistenza socio-sanitario-assistenziale, i servizi per i minori e il sostegno al reddito.
Per quanto riguarda, infine, i minori stranieri, nell’ultimo decennio sono aumentati di circa 600mila unità, vedendo decuplicati gli iscritti alle scuole e ponendo all’attenzione pubblica il cosiddetto fenomeno delle seconde generazioni.
Se da un lato dovremo affrontare flussi migratori sempre più robusti, dall’altro questi ultimi saranno maggiormente rotatori e con periodi di migrazione tendenzialmente contratti. La crescita di quelli che sono oggi Paesi in via di sviluppo richiamerà in patria i migranti con possibilità di vita ed investimento oggi impossibili. La sfida che ci attende è dunque di costruire un sistema nel quale percorsi di inclusione nella nostra società e di rientro nel Paese di origine si consolidino di pari passo.
L'immigrazione è vista come un percorso individuale a termine, con la certezza (o la speranza?) che lo straniero tornerà sicuramente in patria. Quindi piuttosto che investire per migliorare le condizioni di vita qui in Italia, meglio predisporre percorsi di rientro. Se poi uno straniero mette su famiglia, compra casa, ha dei figli, poco importa, tanto prima o poi se ne tornerà a casa. Volente o nolente.

A capo quanto riportato sottolinea come la gestione del fenomeno si componga di tre principali ambiti di azione: gli aiuti diretti allo sviluppo dei Paesi di origine, la regolamentazione dei flussi di ingresso e le politiche di integrazione sul territorio.

IL MODELLO ITALIANO: IDENTITA’ E INCONTRO
Cioè: noi abbiamo la nostra identità e lo straniero deve incontrarla per forza

La complessità e la dimensione dei fenomeni migratori che stanno interessando l’Italia richiedono l’urgente definizione di una chiara cornice culturale entro cui condurre in sicurezza il delicato processo di integrazione cui siamo chiamati.
Un altro richiamo alla sicurezza, l'ossessione del Governo in materia di immigrazione.

Ogni azione politica e legislativa deve infatti essere coerente con una visione di fondo che attiene innanzitutto alla dimensione antropologica e quindi sociale.
Non possiamo eludere la sfida epocale che le migrazioni ci pongono di fronte. I talenti e la creatività delle persone che giungono in Italia devono trovare terreno fertile per una loro piena valorizzazione nei processi economici e sociali ma, al tempo stesso, non possiamo permettere che le diverse tradizioni e culture di provenienza entrino in collisione con il nostro assetto valoriale.
Cioè: qui comandiamo noi con le nostre regole e valori, guai a chi ci mette in discussione o dissente.

Integrazione e sicurezza, accoglienza e legalità entrano in gioco come facce della stessa medaglia, in quanto l’incontro non è mai in astratto tra culture, ma sempre tra persone. Ed esso non è possibile senza ordine e garanzia delle basilari regole di convivenza che si traducono in politiche di accoglienza definite. Solo in questa ottica è possibile, dunque, sviluppare percorsi di integrazione fatti di diritti e doveri, di responsabilità e opportunità, che siano accompagnati e corretti strada facendo.
Identità, incontro ed educazione sono le parole chiave di un “modello italiano” di integrazione.
Ma è mai esistito davvero un modello italiano di integrazione?

Diffidiamo, dunque, dell’approccio culturale per cui il confronto avvenga tra categorie sociali, etniche o religiose, tagliando fuori, in modo ideologico, la responsabilità di ciascuno nell’essere protagonista dell’incontro con l’altro.
Il presupposto di ogni interazione è la capacità di comunicare se stessi, di trasmettere la propria identità. L’Italia, per storia e posizionamento geografico, è da sempre terra di incontro tra culture e tradizioni differenti che hanno saputo mantenersi – salvo poche e brevi eccezioni – in un equilibrio di rispetto e di pace. Per costruire una convivenza civile stabile, in un contesto di crescente pressione sociale, non possiamo non riscoprirne nel nostro passato le condizioni essenziali, rivitalizzandone le radici. L’identità del nostro popolo è stata plasmata dalle tradizioni greco-romana e giudaico-cristiana, che unendosi in maniera originale hanno saputo fare dell’Italia un Paese solidale nel proprio interno e capace di ospitalità e gratuità rispetto a chiunque arrivi dentro i suoi confini. Il rispetto della vita, la centralità della persona, la capacità del dono, il valore della famiglia, del lavoro e della comunità: questi sono i pilastri della nostra civiltà, traendo origine e linfa vitale direttamente da quella apertura verso l’altro e verso l’oltre che ci caratterizza.
Ancora una volta si rimarca l'identità giudaico-cristiana, in modo da sbarrare subito ogno possibile visione aconfessioniale, laica o peggio ancora mussulmana. Risulta ridicolo e ipocrita il rimando al rispetto della vita da chi, proprio nel “Pacchetto sicurezza” ha decretato il rimpatrio dei migranti nel deserto della Libia. (Inoltre quando si parla di capacità del dono, i redattori facevano riferimento ad Anemone, Tarantini e soci).

Nella Costituzione si trova la sintesi formale di questo comune sentire popolare come risultato della convergenza di diverse tradizioni politiche su una visione condivisa di persona e società.
L’assunto di tale visione, che vogliamo definire dell’Identità Aperta, (per quanto ci sforziamo, non riusciamo proprio a capire il senso di questa0 Identità Aperta) è la consapevolezza di un livello elementare di esperienza comune a tutti gli uomini, che abbatte gli steccati delle ideologie ed è premessa per un incontro sincero e per una accoglienza all’interno dell’alveo tramandato dai nostri padri. Si tratta, dunque, di una lettura dell’umana vicenda che supera, da un lato, l’impostazione multiculturalista (per la quale le differenti culture per convivere debbono rimanere giustapposte e perfettamente divise), e, dall’altro, la matrice assimilazionista (che mira alla neutralizzazione delle tradizioni presenti in un ambito sociale a vantaggio di quella che ospita le altre). Entrambe le visioni, frutto di un pensiero relativista che di fatto ritiene impossibile l’incontro, portano a una ghettizzazione perfetta, inesorabile premessa del conflitto sociale come già verificato in molti altri Paesi.
Tralasciando la retorica “dell'alveo tramandato dai nostri padri”, si dispensano critiche al multiculturalismo ed al pensiero relativista (per compiacere il Vaticano?), e si fa leva sul rischio di conflitto sociale generato dalla ghettizzazione, proprio quello che sta producendo il “Pacchetto sicurezza”.

Ciascun immigrato arriva in Italia sperando in una vita migliore rispetto alla condizioni di provenienza (povertà, instabilità politica o guerra). Fatte salve le tutele e le garanzie previste per i richiedenti asilo politico in senso stretto, in una visione che superi le opposte posizioni dell’ostilità fondata sulla paura e dell’accoglienza disordinata, è opportuno offrire strumenti differenziati in relazione ai diversi progetti. C’è chi vuole tornare in patria dopo avere imparato un lavoro o accumulato risparmi. C’è chi desidera invece fermarsi in Italia come tappa per una ulteriore migrazione. E c’è anche chi spera di poter rimanere definitivamente da noi.
Qui emerge la totale ignoranza sul fenomeno migratorio. Gli immigrati che hanno intenzione di fermarsi in Italia stabilmente sono la netta maggioranza (i ricongiungimenti familiari ne sono la prova inequivocabile).

Proprio in considerazione di queste tre fattispecie è indispensabile ricorrere a una programmazione dei flussi di accesso, al fine di passare da una immigrazione subita ad una programmata. E’ infatti nel disordine che si produce deresponsabilizzazione dell’immigrato e chiusura nella comunità di accoglienza. Una prospettiva di questo tipo può prevedere percorsi apparentemente aspri, bisognosi di grande determinazione e perseveranza. In questo senso diventa intollerabile il concetto stesso di clandestinità, perché essa – in quanto condizione oggettivamente sleale e squilibrata rispetto alle norme della convivenza - vanifica anche le tante iniziative di buona integrazione che nascono dal territorio.
Qui ritorna l'incubo del clandestino che va represso anche aspramente con determinazione e perseveranza. Perchè secondo il Governo è il clandestino che produce disordine. Nella realtà è proprio il disordine e la follia del “pacchetto sicurezza” che genera disordine ed insicurezza.

Il modello di Identità Aperta si basa sul metodo della possibilità di un incontro autentico fondato sulla conoscenza e sul rispetto di ciò che siamo, ricambiato con la naturale curiosità per l’altrui cultura e tradizione. Se l’integrazione vera richiede una relazione reciproca, il centro di tutto è ancora una volta la persona e non lo Stato. Per questo il nostro modello è prettamente sussidiario.
L'immigrazione è problema a cui lo Stato si sottrae, le politiche di accoglienza e integrazione non sono un suo compito. Lo Stato deve solo controllare, regolamentare e reprimere.

Nelle società occidentali spesso predomina la tendenza a considerare lo Stato come primo interlocutore di questi processi: tuttavia l’accoglienza e l’interscambio possono avere luogo solamente laddove c’è un soggetto vivo, con una identità propria, che li propone e li porta avanti, di fronte ad altri soggetti ugualmente vivi. Lo Stato deve essere soprattutto al servizio di questi soggetti. Le misure politiche devono offrire il quadro normativo e preventivo che favorisca l’interazione. Il soggetto adeguato che rende possibile l’interazione necessaria all’integrazione è il popolo, una esperienza umana viva, con la sua tradizione, la sua cultura e i suoi valori. Il popolo italiano serba nei suoi tratti costitutivi tutto il potenziale umano indispensabile per esserne protagonista. Ciò di cui abbiamo bisogno sono quindi persone e operatori sociali che non temano l’umanità degli altri e che siano coscienti di portare in sé qualcosa capace di sostenere la sfida delle aspettative e delle esigenze di tutti gli altri in quanto uomini, al di sopra delle determinazioni culturali particolari. Da questo punto di vista è possibile parlare di amicizia e fratellanza umane in maniera non retorica.
Ciascuna persona è chiamata ad accettare la sfida dell’incontro nel contesto sociale dove vive e lavora. Ognuno dunque è responsabile e protagonista nel processo di trasformazione che sta attraversando la nostra società. Ma oltre alla responsabilità personale, gioca un ruolo fondamentale il servizio che la libera iniziativa comunitaria, sia di italiani sia di immigrati, fa alla riuscita dell’integrazione.
Infine, ciò che sostiene la peculiarità del modello italiano è il suo fondarsi su una dimensione educativa. Italiani e immigrati realisticamente possono affrontare l’avventura dell’incontro reciproco solo se vengono ambedue educati all’apertura all’altro in quanto valore assoluto. Questo compito necessita dell’impegno anzitutto dei luoghi tradizionalmente deputati alla formazione (famiglia, scuola, associazionismo), dove anche il rispetto delle regole venga vissuto in maniera non formale ma come espressione pratica del bene comune.

I CINQUE ASSI DELL’INTEGRAZIONE
Il successo di un percorso di integrazione si sviluppa prioritariamente su cinque assi dove si dipana la vita di chi migra. Data la centralità della persona con la sua libertà responsabile e della famiglia con la sua funzione educativa quali elementi essenziali di integrazione, le condizioni che potremmo definire prioritarie per rendere possibile l’incontro sono l’apprendimento della lingua italiana e dei valori costituzionali su cui si fonda il nostro Paese. La scuola per i minori e il lavoro per gli adulti sono pertanto i luoghi dove questi vengono veicolati in modo preminente. Ma senza l’accesso alla casa e ai servizi essenziali tutto ciò non sarebbe sufficiente per determinare un inserimento completo dell’immigrato nella vita della nostra società.
Trasversalmente a quanto detto, sottolineiamo infine il ruolo della donna come motore dell’integrazione. L’inclusione sociale delle donne straniere è certamente la cartina tornasole del grado di integrazione raggiunto da una società. Pensiamo pertanto alle donne quale primo target da raggiungere per veicolare i percorsi di integrazione di seguito riportati.

ASSE I – EDUCAZIONE E APPRENDIMENTO: DALLA LINGUA AI VALORI
La scuola come luogo primario di integrazione
Il fenomeno della elevata presenza di alunni stranieri, in particolare della loro concentrazione in alcuni territori e in alcune scuole o classi, richiede nuove regole e strategie per una integrazione piena e che non penalizzi gli alunni italiani. E’ necessario evitare la formazione di classi ad eccessiva concentrazione di stranieri: va in questa direzione l’indicazione di un tetto del 30% di alunni stranieri posto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per le scuole dell’obbligo.
Perchè la priorità non è la qualità dell'istruzione, il formare nuovi cittadini, investire sul futuro dei nostri figli, indipendentemente dal passaporto che hanno, ma il “non penalizzare gli alunni italiani” secondo un modello già in auge nel Sudafrica dell'Apartheid.

L’integrazione può attuarsi solo a partire dall’acquisizione della capacità di capire e di essere capiti, dalla padronanza efficace e approfondita dell’italiano considerato come seconda lingua ovvero come mezzo di contatto interpersonale. Il Piano nazionale per l’apprendimento e insegnamento dell’italiano L2 nelle scuole, promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, intende dare risposta ai bisogni comunicativi e linguistici degli alunni stranieri giunti in Italia da meno di due anni, inseriti in scuole di diverso ordine e grado e rilevati direttamente dai docenti e dai dirigenti scolastici. Si può stimare che la presenza di alunni stranieri che esprime bisogni di questo tipo sia pari a circa il 20% del numero totale di alunni con cittadinanza non italiana (nell’anno scolastico 2009/2010 il numero totale è di circa 700.000). Essi sono inseriti, in particolare, nelle scuole secondarie di primo e secondo grado - con una forte concentrazione negli istituti tecnici e professionali dove sono iscritti l’80% degli allievi stranieri - e nelle località e regioni evidenziate dall’annuale rapporto statistico realizzato dal Ministero promotore del Piano. Sono questi dunque i criteri con cui dovranno essere indirizzate le risorse del fondo appositamente creato.
Si tratta di un intervento integrato dal momento che accompagna l’inserimento scolastico degli alunni stranieri nella classe ordinaria di pertinenza e che occupa solo una parte del monte-ore scolastico. L’alunno segue il programma della classe di inserimento per una parte della giornata e frequenta il modulo di italiano L2 durante le ore in cui è previsto nella classe l’insegnamento di discipline a carattere prevalentemente verbale. Il Piano è articolato per fasi e per moduli all’interno di tutto l’anno solare, contemplando la possibilità di precorsi, corsi di recupero pomeridiani e corsi estivi a seconda del livello di partenza dell’alunno. L’intervento linguistico è inoltre “a scalare”, più intensivo nella prima fase e meno nelle seguenti, e, in questi anni, sono stati elaborati, diffusi e sperimentati numerosi strumenti didattici per età, livello e classe di inserimento diverse.
Nella scuola dell’autonomia, la dirigenza e il corpo docente devono essere sostenuti e formati adeguatamente per affrontare questi nuovi contesti multiculturali e a forte complessità. Si rende pertanto indispensabile un adeguato piano di formazione, in presenza e on-line, per accrescere specifiche competenze didattiche e gestionali nelle scuole ad alta concentrazione di alunni stranieri.
Al di là del livello di conoscenza linguistica degli studenti immigrati, è utile realizzare programmi didattici, attività para ed extra scolastiche con il contributo dei diversi soggetti comunitari, legate soprattutto alla musica e allo sport, che valorizzino i loro talenti e le loro tradizioni, soprattutto nei primi anni di scuola affinché la vita familiare non sia in contrapposizione con quella sociale.

La formazione linguistica
L’istituto delle 150 ore di formazione riservate al lavoratore dalla contrattazione collettiva ai fini di studio, formazione, riqualificazione e aggiornamento professionale, potrebbe utilmente essere rivitalizzato e adeguato alle trasformazioni che il mercato del lavoro italiano ha subito negli ultimi anni con l’arrivo di forza lavoro immigrata. Corsi per una nuova alfabetizzazione potranno essere organizzati anche secondo l’approccio bilaterale perseguito con la costituzione dei fondi interprofessionali e realizzati presso sedi pubbliche o private accreditate dalle Regioni.
Con particolare riferimento alle donne immigrate e in linea con quanto già intrapreso dal Ministero dell’Interno, vanno promossi programmi televisivi quotidiani in specifiche fasce orarie per migliorare la conoscenza e l'uso della lingua italiana e per avvicinare gli stranieri residenti in Italia alla nostra cultura. Soprattutto le donne, infatti, a causa di fattori culturali propri di alcune nazionalità e della loro prolungata permanenza in casa, hanno meno occasioni per confrontarsi con cittadini italiani e apprendere la lingua.

Valori ed educazione civica
La conoscenza e il rispetto della nostra Carta costituzionale e dei valori in essa contenuti sono alla base del percorso di integrazione. A questo si aggiunge la conoscenza della nostra vita civile e il rispetto delle leggi che nascono dallo stesso impianto costituzionale. Si tratta di definire la cornice entro la quale realizzare l’inclusione e l’accoglienza per chi proviene da tradizioni e modi di convivenza differenti dai nostri: una proposta chiara aiuta l’integrazione, una proposta confusa genera solo smarrimento e illegalità. E’ importante dunque che i valori costituzionali, i prioritari obblighi di legge, i nostri usi e costumi e i servizi per l’integrazione messi in campo a livello nazionale, e soprattutto locale, vengano resi noti all’immigrato nei primi mesi di permanenza in Italia.
La priorità quindi non è inserire lo straniero in un contesto accogliente e sicuro, bensì obbligarlo subito ad accettare un modello culturale non suo, prima ancora che si sia reso conto di dove si trova.

Lo Stato innanzitutto deve garantire momenti di formazione e informazione riguardo al proprio assetto istituzionale. Molti sono i luoghi dove ciò si può realizzare: dagli sportelli unici e dagli uffici per l’immigrazione delle questure alle scuole, dagli ospedali ai centri di assistenza socio-sanitari-assistenziali, dalle parrocchie alle sedi territoriali del Ministero del lavoro, dell’Inps e dell’Inail, dalle grandi aziende ai sindacati, dai caaf ai patronati, fino alle associazioni di immigrati e in generale a tutto il terzo settore.
Qui emerge bene la filosofia sull'immigrazione del Governo. Per fornire informazioni sulla società italiana, il primo soggetto individuato sono le Questure, cioè la Polizia, in ultimo le associazioni del terzo settore che si occupano degli interventi socio-assistenziali per gli stranieri.

Si tratti di ambiti con cui ciascun immigrato viene a contatto e dove può essere accompagnato, in un incontro umano, per crescere nella consapevolezza dei suoi diritti e doveri come residente in Italia.

ASSE II - LAVORO
Lavoro e programmazione dei flussi
Per evitare che l’ingresso incontrollato di manodopera straniera produca situazioni di surplus di una offerta di lavoro poco o nulla qualificata e a basso costo, come tale funzionale all’espansione di circuiti economici “sommersi” quando non addirittura criminali, diventa essenziale una corretta e trasparente programmazione dei flussi annuali d’ingresso di lavoratori stranieri.
La programmazione dei flussi deve essere coerente con le rilevazioni dei fabbisogni di manodopera nei mercati locali del lavoro e compatibile con le effettive capacità di assorbimento nel tessuto sociale e produttivo del Paese. Pertanto essa deve essere guidata dalla domanda interna proveniente dal sistema delle imprese e delle famiglie piuttosto che essere effetto della pressione migratoria dall’esterno.
In questo quadro risulta necessario sviluppare, con una appropriata strumentazione, una effettiva capacità previsionale che dia conto, da un lato, dei fabbisogni professionali nel breve e nel medio termine e, dall’altro lato, della opportunità di soddisfare il fabbisogno con lo stock di lavoratori già presenti sul territorio al fine di evitare la creazione di sacche di disoccupazione e marginalità sociale.
In questa direzione si muovono anche le linee guida per la formazione nel 2010 frutto della intesa tra Governo, Regioni e parti sociali, che si sono impegnati ad effettuare periodicamente rilevazioni miste, prevalentemente qualitative, sui fabbisogni di breve termine, a livello territoriale e settoriale, da integrare con le macro tendenze di lungo periodo elaborate a livello nazionale e internazionale. Questo al fine di rendere visibili i bacini di occupazione nascosta, ma anche e soprattutto per fornire precise indicazioni circa le conoscenze, abilità e competenze che è necessario promuovere per una qualificata ed effettiva integrazione delle persone nel nostro mercato del lavoro.
Questa strumentazione previsionale deve inoltre integrarsi con meccanismi di monitoraggio che consentano la tracciabilità dei percorsi lavorativi dei cittadini stranieri entrati nei flussi. Si tratta di un traguardo da raggiungere in breve tempo attraverso una maggior cooperazione tra le istituzioni e gli enti nazionali, il coinvolgimento delle Regioni e degli Enti locali, la partecipazione attiva delle associazioni imprenditoriali e di categoria, delle agenzie di intermediazione e di tutte le parti sociali. Già oggi le informazioni contenute nelle comunicazioni obbligatorie legate ai movimenti del mercato del lavoro integrate con il monitoraggio degli ammortizzatori in deroga hanno consentito di ridurre positivamente l’impatto della crisi anche per i lavoratori stranieri, grazie all’estensione degli strumenti di protezione del reddito a tutti i settori produttivi e a tutte le tipologie di lavoro dipendente.
In realtà il processo di integrazione può e deve iniziare già nei Paesi di origine promuovendo una adeguata informazione e formazione per le persone che intendano migrare nel nostro Paese ed efficaci servizi di selezione, orientamento ed accompagnamento al lavoro. La formazione nei Paesi di origine rappresenta uno strumento di indubbia validità nel momento in cui i cittadini stranieri sono messi in condizione di apprendere, sia pure ad un livello basico, la lingua italiana e gli elementi essenziali dell’educazione civica. Ciò significa che, nel momento in cui costoro vengono a lavorare in Italia, possono essere significativamente ridotti sia i rischi negli ambienti di lavoro sia i rischi sociali derivanti dalla mancanza di conoscenza dei valori fondanti della nostra società. In particolare, per quanto riguarda la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro gli infortuni delle persone straniere dipendono, oltre che da una ridotta cultura della sicurezza del lavoro, da un insufficiente livello di comprensione delle informazioni e delle disposizioni impartite nei luoghi di lavoro per la incolumità delle persone.
Il meccanismo della formazione nei Paesi di origine - i cosiddetti titoli di prelazione - è oggi inefficace. Un’azione pubblica deve condurre ad una effettiva possibilità per le imprese e gli intermediari autorizzati di poter sviluppare le opportune forme di selezione e reclutamento sulla base di liste di lavoratori disponibili e formati, inseriti in percorsi che possano, nel caso di personale altamente qualificato, essere perfezionati e conclusi in Italia, intrecciando gli istituti normativi e le misure di politica attiva del lavoro attualmente disponibili, a partire dall’apprendistato e dal tirocinio formativo.
La formazione, la selezione e il reclutamento dei lavoratori già nel Paese d’origine sono anche una grande possibilità per la cooperazione internazionale tra le associazioni di rappresentanza datoriali e sindacali e per lo sviluppo di specifiche competenze e funzioni di integrazione sociale e nel lavoro degli stranieri nell’ambito della bilateralità. Il fabbisogno di un determinato settore e le competenze richieste per operare sul campo in modo sicuro e qualificato sono conosciuti, innanzitutto, da chi lavora quotidianamente in quell’ambito. Proprio per questo il rapporto tra associazioni ed enti bilaterali di Stati diversi può essere un canale solido e affidabile per segnalare le esigenze di manodopera, individuare i lavoratori idonei e formarli secondo le competenze richieste dal Paese di destinazione.
In questa prospettiva, la relazione e la cooperazione con specifiche comunità all’estero che esprimano interesse e capacità progettuali, con le quali sviluppare un dialogo continuativo ed aperto all’integrazione ed alla circolarità dell’immigrazione, rappresentano un modello da privilegiare ed implementare.
Affinché l’investimento effettuato, pubblico e privato, si riveli realmente conveniente si potrebbe svincolare l’ingresso dei lavoratori adeguatamente formati all’estero dal sistema delle quote consentendone l’accesso al mercato del lavoro italiano in qualsiasi momento al pari delle categorie professionali a cui è consentito l’ingresso fuori quota. Si rende di conseguenza opportuna una semplificazione degli adempimenti procedurali al fine di garantire che la risposta al fabbisogno espresso dal sistema produttivo possa essere fornita in tempi coerenti e certi.

Lavoro e qualificazione professionale
Occupare una regolare posizione lavorativa per il cittadino straniero significa ottenere status e reddito che conferiscano riconoscibilità sociale e rappresentino un fattore di legittimazione della presenza in Italia, facilitando e moltiplicando le occasioni di scambio con la comunità locale di riferimento.
Un passo indispensabile nel percorso di integrazione diviene oggi lo sviluppo di un sistema di riconoscimento e certificazione delle competenze professionali che consenta anche al lavoratore straniero di posizionarsi sul mercato del lavoro e progettare con più chiarezza il proprio percorso di crescita e valorizzazione – personale oltre che professionale – anche in funzione del suo possibile rientro al Paese di origine. In questa prospettiva, le politiche attive del lavoro e la rete dei servizi per il lavoro, pubblici e privati, autorizzati e accreditati, svolgono una funzione rilevante, se non decisiva, nei processi di integrazione sociale.
La temporaneità dei permessi di soggiorno per lavoro va coniugata più strettamente con le politiche attive e gli strumenti di reimpiego dei lavoratori al fine di scongiurare la dispersione dei lavoratori stranieri nel lavoro irregolare alimentando la catena dello sfruttamento della manodopera immigrata. Ciò richiede il potenziamento del raccordo e della cooperazione tra i servizi per l’impiego e la filiera dei servizi territoriali che interviene nella gestione dei permessi, anche attraverso un sistema di convenzioni che da un lato consenta una semplificazione delle procedure e dall’altro valorizzi appieno il ruolo e la funzione che la legge Biagi ha assegnato agli operatori del mercato del lavoro, autorizzati o accreditati, al fine di contrastare la presenza di intermediari che operano in contrasto alla legge e in funzione dello sfruttamento della manodopera (caporali e capocottimisti).
Anche in questo caso, e nell’ambito delle potenzialità della legge Biagi che sul punto appaiono ancora largamente inespresse, la costruzione di coordinate reti associative e/o bilaterali può essere l’occasione perché la certificazione delle competenze del lavoratore immigrato e il suo inserimento nel mercato possano essere effettuate dalle associazioni stesse, in forza della loro esperienza nel contesto lavorativo concreto, come recentemente ipotizzato da Governo, Regioni e parti sociali nelle linee guida sulla formazione per il 2010.
Gli stili di vita e lavorativi, la difficoltà di relazione con i servizi pubblici e l’elevata mobilità territoriale di una parte consistente di lavoratori stranieri limitano, spesso, l’efficacia dei servizi locali per l’impiego particolarmente nei processi di reinserimento al lavoro. Per dare maggiore efficacia alle politiche attive del lavoro a sostegno della popolazione immigrata è pertanto necessario potenziare l’informazione sulle opportunità occupazionali, riqualificare la rete pubblica e privata dei servizi al lavoro prevedendo specifiche azioni di orientamento e la presenza di mediatori linguistici e culturali, potenziare il raccordo con le reti associative e di rappresentanza e con la bilateralità per aumentare l’occupabilità e correggere la discontinuità del mercato del lavoro.
Formazione nei Paesi di origine, accoglienza e orientamento al lavoro, formazione alla cittadinanza, certificazione delle competenze, riqualificazione professionale, rappresentano le tappe del percorso di integrazione socio-lavorativa per la persona, la famiglia e la comunità che richiede la convergenza degli interventi nazionali, delle Regioni e degli Enti locali, all’interno di una prospettiva di valorizzazione delle potenzialità della persona in relazione dialogante con i valori ed il sistema dei diritti e dei doveri che caratterizzano il nostro Paese.
Il contrasto allo sfruttamento della manodopera immigrata va condotto anche attraverso opportuni accordi in sede di contrattazione collettiva, operando soprattutto a livello territoriale e aziendale, e con l’uso esteso dei buoni lavoro come strumento di flessibilità ma anche di salvaguardia dei lavoratori immigrati, in particolare nel settore del lavoro domestico e dell’assistenza alla persona nel quale più forte è la pressione alla irregolarità e debole la capacità negoziale dei lavoratori. Il buono prepagato – disciplinato dalle legge Biagi ma previsto in molti altri Paesi europei – consente di far emergere agevolmente importanti spezzoni di lavoro sommerso, la cui regolarizzazione garantisce tutele previdenziali, assicurative e retributive ai lavoratori e oneri ridotti per i beneficiari della prestazione lavorativa. Con il buono lavoro possono finalmente emergere nominativi di lavoratori e di datori di lavoro fino ad allora sommersi, ponendo le premesse per la tracciabilità dei successivi comportamenti.
Bilateralità e cooperazione
Gli enti bilaterali possono rappresentare in sussidiarietà un affidabile complemento delle funzioni pubbliche con riferimento al collocamento e alla formazione, al governo dei flussi migratori stagionali, alla gestione dei voucher, alla salute e sicurezza nel lavoro, alla stessa integrazione del reddito nei periodi di inattività. Si tratta di sostituire intermediari inefficienti, quando non criminali, con sobrie e concrete attività di mediazione sociale non profittevole garantite dalla rappresentatività degli attori sociali. Gli enti bilaterali possono fornire anche utili elementi conoscitivi in ordine ai fenomeni di maggiore criticità presenti sul territorio, dando così agli enti pubblici competenti elementi utili per programmare e gestire in modo più puntuale le diverse tipologie di intervento.
Anche le grandi organizzazioni rappresentative della cooperazione italiana possono svolgere una significativa funzione ai fini della emersione del lavoro irregolare degli immigrati, non soltanto per la loro capacità diffusa di monitorare e segnalare le forme di cooperazione spuria ma anche per la loro capacità di promuovere modelli di cooperazione in grado di organizzare in termini trasparenti le attività lavorative che, in modo dipendente o autonomo, prestano servizi di cura e assistenza familiare. Come in passato la cooperazione ha consentito l’emersione e lo sviluppo di attività tradizionalmente irregolari, tra cui il facchinaggio, così oggi essa può concorrere alla diffusione organizzata dei nidi familiari o alla regolarizzazione e qualificazione delle cosiddette “badanti”.

Imprenditorialità
I lavoratori stranieri presenti sul nostro territorio esprimono una elevata propensione alla creazione di impresa contribuendo attivamente alla crescita economica ed al benessere dei cittadini. Ciò costituisce un segnale importante di integrazione, fornendo un esempio ed una prospettiva di crescita per le seconde generazioni nella condivisione del nostro modello aperto di accoglienza e sviluppo.
L’impresa rappresenta un pilastro per l’occupazione e la crescita, va aiutata al nascere e sostenuta nel suo sviluppo soprattutto grazie a un quadro regolatorio del lavoro meno formalistico, semplice e adattabile. Accanto alle politiche per il lavoro, il sistema bancario ed assicurativo, le associazioni imprenditoriali e di categoria sono chiamate ad una attenzione specifica nel promuovere e sostenere questa imprenditorialità giovane e spesso impreparata alla complessità ed alle asperità della globalizzazione. Le storie di successo di alcuni individui sostengono certamente i molti che iniziano il duro percorso di integrazione. Altrettanto rilevante è il sostegno all’imprenditorialità nei Paesi di origine, sia per prevenire decisioni migratorie sia per facilitare laddove sia possibile un pronto rientro in patria.

Lavoro e previdenza
L’accoglienza nell’ordine e nel dialogo si esprime anche nell’accompagnamento al rientro in patria. Analizzando i dati sulle rimesse, in futuro aumenterà il numero di coloro che acquisita una esperienza significativa di vita e lavoro nel nostro Paese si orienteranno al ritorno nei loro Paese di origine. E’ dunque opportuno allargare l’offerta di servizi e misure di accompagnamento con il coinvolgimento ampio delle associazioni imprenditoriali, dei gruppi bancari e assicurativi e degli operatori ONG operanti all’estero. Sempre nell’ottica di sostenere ed accompagnare percorsi di rientro, sarà importante sviluppare accordi con i Paesi di origine per permettere una riscossione certa e completa dei contributi previdenziali versati in Italia dal lavoratore immigrato che desidera tornare in patria.
Emerge la paura che gli stranieri si stabiliscano definitivamente in Italia, anche dopo l'attività lavorativa e che si debba pagare loro pensione ed assistenza sanitaria. Perciò la priorità è quella di organizzare e promuovere il rimpatri dello straniero che non è più utile al sistema produttivo italiano, magari concedendogli pure di poter beneficiare di una mini pensione in patria.

Lavoro nero e vigilanza
In Italia i soggetti maggiormente esposti al lavoro irregolare sono gli immigrati. In particolare al Sud appaiono accentuarsi odiosi fenomeni di abuso della situazione di disagio vissuta da molti migranti, utilizzati come bassa manovalanza reclutata da “caporali” al servizio di pseudo-imprenditori che intervengono in subappalto o gestiscono direttamente, in forme più o meno irregolari, commesse pubbliche e private. Il caporalato continua a persistere in forme gravi anche per effetto della pervasività delle organizzazioni criminali, in grado di esercitare un forte controllo su determinati settori, l’edilizia soprattutto. L’intreccio tra sommerso, caporalato e criminalità vede tra le principali vittime proprio i lavoratori stranieri senza permesso di soggiorno, cui vengono affidate le mansioni più dequalificate e usuranti, la cui pericolosità è spesso causa di infortuni sul lavoro, anche fatali.
È necessario perciò liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo, potenziando qualitativamente le attività di vigilanza, da orientarsi prioritariamente alle violazioni sostanziali, a partire da quelle più gravi che spesso costituiscono un pericolo immanente per l’incolumità della persona. In questo senso va proseguito il lavoro iniziato con la macro-direttiva ai servizi ispettivi del 18 settembre 2008, che rilanciava l’ambiziosa impostazione, in chiave preventiva e promozionale delle funzioni ispettive e di vigilanza, delineata con la legge Biagi e il relativo decreto di attuazione.
Per contrastare lo sfruttamento della manodopera immigrata l’azione ispettiva deve sempre più divenire sintesi sinergica delle azioni programmate dai diversi organi di vigilanza, unitamente agli interventi delle forze di Polizia, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, e attuate, in modo coordinato e in linea di principio uniforme, a livello territoriale, anche in considerazione delle specifiche realtà e delle caratteristiche peculiari delle singole aree e dei diversi distretti economici.
Appare fondamentale portare a compimento la piena integrazione operativa dei servizi ispettivi e delle forze armate e di polizia anche attraverso l’impiego di tecnologie condivise e d’avanguardia che consentano collegamenti informatici e controlli incrociati. La collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, che oggi si realizza attraverso un suo nucleo specializzato, potrà opportunamente avvalersi soprattutto delle stazioni territoriali che costituiscono un presidio capillare nei territori, fonte privilegiata di informazioni e di percezioni su quanto in essi realmente accade. La collaborazione con la Guardia di Finanza, avviatasi positivamente nell’ambito del piano straordinario di vigilanza nel Mezzogiorno, potrà consentire l’incrocio di informazioni essenziali per selezionare gli obiettivi.
Più in generale l’evoluzione della attività ispettiva consiste proprio nell’approfondimento del lavoro di intelligence a monte delle attività operative affinché il numero inesorabilmente limitato di queste in rapporto al numero complessivo delle imprese sia tuttavia orientato verso obiettivi mirati in quanto ragionevolmente luogo delle più gravi patologie tra cui appunto lo sfruttamento della manodopera immigrata e clandestina.

ASSE III – ALLOGGIO E GOVERNO DEL TERRITORIO
Questo è un abbinamento alquanto inusuale.

Con riferimento all’alloggio occorre preliminarmente distinguere due aspetti: da un lato l’accesso alla casa da parte degli immigrati, dall’altro la necessità di favorire una coesistenza pacifica tra cittadini italiani e stranieri per favorire la costruzione di un “patto sociale” nel rispetto delle regole di convivenza civile.
Per quanto riguarda l’accesso all’alloggio, la popolazione immigrata necessita di servizi di accompagnamento, anche di tipo finanziario, adeguati a condizioni di disorientamento e di difficoltà economica. Innanzitutto i datori di lavoro, sostenuti dalle loro associazioni di categoria, hanno la responsabilità di accompagnare il lavoratore straniero nel trovare un alloggio adeguato. Da questo punto di vista, la verifica degli impegni assunti dal datore di lavoro con la sottoscrizione del contratto di soggiorno per lavoro subordinato, si accompagna alla valorizzazione ed alla diffusione di iniziative riguardanti alloggi offerti “a rotazione” ai lavoratori stranieri.
Il problema abitativo non è un problema dello Stato, vi devono provvedere i datori di lavoro che hanno voluto assumere manodopera straniera, magari anche con case dormitorio a rotazione. Lo Stato deve controllare be sanzionare chi non provvede a quest'obbligo.

Si tratta di soluzioni di primo alloggio temporaneo per permettere una stabilizzazione abitativa del lavoratore corrispondente a quella lavorativa.
Per quanto concerne invece il matching tra domanda e offerta di alloggio, auspichiamo il moltiplicarsi in sussidiarietà di punti di contatto affinché l’immigrato abbia a disposizione una rete, non solo informale, fatta di camere di commercio, mondo cooperativo, fondazioni, associazioni di categoria, sindacati e tutti quei soggetti con cui vengono a contatto. Tra l’altro, molto spesso queste realtà già oggi rispondono all’esigenza di garanzia su prestiti finanziari ma auspichiamo che gli istituti di credito sviluppino quanto prima offerte dedicate agli stranieri in modo particolare per il sostegno all’affitto o l’accensione di un mutuo.
Per quanto riguarda, invece, le politiche urbanistiche è quanto mai necessario che i Comuni definiscano Piani di governo del territorio secondo regole e indirizzi che facilitino l’inclusione e la convivenza pacifica per recuperare quelle zone del territorio sulle quali hanno perso il controllo sociale. Lo sviluppo dei centri urbani, soprattutto per quelli di maggiori dimensioni, deve essere governato da una regia pubblica, che dettando le linee di sviluppo della città per una maggiore qualità di vita di chi vi abita, ne sprigioni l’attuazione a partire dal coinvolgimento di tutti gli attori sociali.
Il tema, dunque, della convivenza con persone di diversi usi e tradizioni è certamente un aspetto decisivo nel giudizio sulla vivibilità di una città. Purtroppo, spesso, la presenza concentrata di etnie straniere in un quartiere porta con sé insicurezza diffusa sia per i cittadini italiani che per gli immigrati stessi. E’ urgente riequilibrare la presenza etnica straniera in quelle zone della città dove non abitano più italiani. Particolarmente per i centri storici delle piccole città o le periferie di quelle grandi, risulta prioritario creare le condizioni perché tornino appetibili anche per i cittadini italiani. Questo per evitare il formarsi di enclave dove regna il degrado e la microcriminalità. Laddove si costituiscano ambiti monoetnici di culture differenti dalla nostra, è nota la crescita del tasso di tensione sociale che porta con sé una sterilizzazione della speranza di integrazione. Un ambiente migliore, un sistema di trasporti efficiente, una offerta di servizi che renda il quartiere degno di essere vissuto, rappresentano gli ingredienti essenziali per non lasciare al degrado e conseguentemente alla ghettizzazione aree, anche centrali, delle città.
L’educazione alle elementari regole di convivenza civile che interessa l’uso degli spazi comuni, il rispetto delle norme di igiene e di sicurezza non è un passo scontato, anzi, è spesso fonte di scontro nella quotidianità. Per questo è importante richiamare fin dall’inizio agli immigrati quella che è la cornice entro cui si svolge la convivenza nel nostro Paese.
Ancora una volta si sottolinea che l'impegno del Governo è quello di imporre da subito rigidi stili comportamentali, impegno prioritario rispetto alla pianificazione di politiche di inclusioni sociale

ASSE IV – ACCESSO AI SERVIZI ESSENZIALI
Accesso ai servizi di prima accoglienza
La prima accoglienza rappresenta un passo decisivo per impostare un percorso di integrazione efficace. Sia nei casi di emergenza che nelle migrazioni ordinarie, il primo contatto che ha lo straniero è con lo sportello per l’immigrazione delle prefetture o con l’ufficio per l’immigrazione delle questure. Si tratta del primo passaggio burocratico con cui lo straniero rende nota la propria volontà di rimanere in Italia per un certo tempo e per un determinato motivo.
Meno di dieci righe per parlare dell'accoglienza, tra l'altro demandata alle Prefetture ed alle Questure, luoghi notoriamente competenti ed attrezzati nelle politiche di accoglienza. Forse per il Governo l'unica accoglienza possibile è quella nei CIE.

E’ importante aver una adeguata capacità di mediazione in questo primo incontro e per questo è anche opportuno servirsi di mediatori stranieri, persone cioè che si sono integrate a pieno nel nostro Paese e che possono aiutare nel percorso di integrazione i nuovi immigrati.

Accesso ai servizi socio-sanitario-assistenziali
L’allungamento del periodo migratorio pone con urgenza e necessità la questione del riconoscimento dei diritti di cittadinanza sociale. Un livello essenziale per promuovere una effettiva integrazione sociale della popolazione immigrata è dunque costituito dal corretto accesso ai servizi e ai presidi socio-sanitari-assistenziali presenti sul territorio. In questi anni il riconoscimento giuridico del diritto all’assistenza sanitaria per i cittadini immigrati non è stato sufficiente a garantire l’accesso ai servizi sanitari, socio sanitari e assistenziali e la loro appropriatezza.
Forse si stanno accorgendo che con le norme inserite nel “Pacchetto sicurezza” gli stranieri hanno paura a recarsi alla strutture sanitarie.

Ciò richiede una conoscenza approfondita del fenomeno migratorio a livello locale, un ripensamento sull’organizzazione interna dei servizi e una effettiva apertura all’esterno dei servizi stessi verso altri enti e forme di volontariato e di privato sociale presenti nei singoli territori in termini di collaborazione.
Conoscere il fenomeno grazie all’istituzione di un punto unico che faccia sintesi in modo flessibile dei flussi informativi, permette di coniugare la domanda della persona con l’offerta dei servizi tentando altresì di prevenire bisogni emergenti. In questa direzione, gli sportelli di accesso al sistema integrato di interventi e i servizi socio sanitari e sociali devono poter creare stretti collegamenti, anche mediante l’utilizzo delle tecnologie telematiche, con gli sportelli pubblici e del privato sociale specializzati sulle problematiche dell’immigrazione.
Solo ora che si parla di assistenza sanitaria, cioè di spesa pubblica, vengono tirate in ballo le organizzazioni del terzo settore, a cui scaricare i costi delll'assistenza sanitaria degli immigrati.

E’ pertanto opportuno potenziare i sistemi di prima assistenza e accompagnamento delle persone immigrate grazie a personale adeguatamente qualificato e materiale divulgativo appositamente predisposto nella lingua dello straniero. Emblematica è la frequente inappropriatezza dell’utilizzo dei servizi, passando dall’accesso indifferenziato ad alcuni di essi, come il pronto soccorso, al corretto ricorso alla rete territoriale.
Dal punto di vista della struttura interna risulta urgente armonizzare l’orario dei servizi con le nuove esigenze dell’utenza che spesso non ha flessibilità di accesso. Oltre a una formazione specifica degli operatori, anche la mediazione e l’interpretariato devono ormai rientrare nel servizio offerto anche attraverso l’assunzione di personale straniero che si è già integrato nel nostro Paese.
A maggior ragione per le persone straniere, la sussidiarietà è il fondamento di una risposta coerente alla complessità del loro bisogno. Tenendo conto dell’attuale articolazione del welfare territoriale centrato sul Piano di Zona, quale strumento attuativo delle linee programmatiche - definite dalle Regioni - e progettuali - definite dai Comuni o Consorzi di Comuni - in materia socio-assistenziale e socio-sanitaria, è opportuno ripercorrere un simile processo di partecipazione e condivisione affinché sul tema “immigrazione e accesso ai servizi” possa svilupparsi una azione congiunta Stato, Regioni e Enti Locali. Solo così saremo in grado di utilizzare e rafforzare la rete di risorse e servizi già operante sui territori, valorizzando le buone pratiche anche mediante un documento di linee guida definito in sede di Conferenza Stato/Regioni.
Il lavoro all’interno dei servizi sanitari e assistenziali deve infatti caratterizzarsi per la multidisciplinarietà e per l’essere in rete: molteplici figure professionali sono chiamate a raccordarsi tra di loro e con l’attività di enti esterni, associazioni di volontariato di italiani e di immigrati e cooperative sociali per condividere competenze, risorse e buone pratiche.
Una particolare attenzione dovrà essere dedicata all’attività di prevenzione ed educazione sanitaria e sociale, specialmente per quanto riguarda malattie esotiche e nei confronti delle donne. L’attivazione di percorsi specifici per informare le donne appartenenti a diverse etnie può garantire un migliore accesso delle famiglie immigrate alla rete dei servizi territoriali. Se da un lato sarà necessario affinare protocolli medici specifici per l’ingresso di persone immigrate in Italia, dall’altro sarà ancor più importante sviluppare adeguati protocolli e strumenti per facilitare l’accesso alla rete dei servizi.

ASSE V – MINORI E SECONDE GENERAZIONI
L’educazione è la priorità per l’integrazione dei minori stranieri: bisogna garantire ambiti e strumenti perché possano divenire loro stessi. Il ruolo fondamentale del lavoro ai fini dell’integrazione degli adulti viene ricoperto dalla famiglia e dalla scuola verso i minori.
In aderenza a tutte le norme nazionali e internazionali, la tutela dei minori deve essere piena e incondizionata, a prescindere dalle modalità di ingresso nel territorio italiano degli stessi.
I genitori dei bambini stranieri affrontano necessariamente un riassestamento del proprio stile di vita e tale condizione di stress può compromettere la loro capacità di accudimento dei figli, che può essere sostenuta innanzitutto dalle reti territoriali di associazioni e famiglie solidali e favorendo il loro accesso ai servizi educativi e socio-sanitario-assistenziali.
Oltre le proposte indicate nell’asse dedicato all’educazione, è opportuno concentrare gli sforzi per evitare l’abbandono scolastico da parte dei minori immigrati prima dell’età dell’obbligo, assicurare l’effettività nell’accesso e nella prosecuzione dell’iter formativo, e offrire percorsi di formazione qualificanti per l’inserimento nel mondo del lavoro, sfruttando innanzitutto lo strumento dell’apprendistato.
All’interno della categoria minori meritano poi particolare attenzione i minori stranieri non accompagnati, i quali si trovano privi di assistenza e rappresentanza da parte dei genitori o di altri adulti legalmente responsabili. In questo ambito è cruciale rinsaldare le politiche di collaborazione con i Paesi terzi - in primis Egitto e Marocco da cui proviene un terzo dei minori stranieri non accompagnati - al fine di prevenire e scoraggiare il fenomeno delle partenze illegali. Ciò potrà essere realizzato sia attraverso campagne informative di prevenzione da realizzarsi nei Paesi d’origine, sia attraverso interventi finalizzati all’inclusione socio-lavorativa dei minori a rischio nel proprio Paese.
Il Comitato per i minori stranieri, istituito presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, in virtù della sua funzione di coordinamento delle attività dei molteplici attori interessati al fenomeno, rappresenta lo strumento centrale nel promuovere politiche di integrazione sistemiche. In tale direzione, è stato potenziato il Programma nazionale di protezione dei minori stranieri non accompagnati, realizzato in collaborazione con l’ANCI e finalizzato alla creazione di una rete che consenta una più equilibrata distribuzione sul territorio nazionale dei minori e il miglioramento delle attuali modalità di presa in carico dei minori, innanzitutto tramite l’istituto dell’affido, soprattutto tramite forme temporanee e flessibili.
Sulle cosiddette seconde generazioni è saltato l’impianto culturale sia del multiculturalismo che dell’assimilazionismo, come in alcuni Paesi dove i figli di stranieri nati nel Paese di migrazione non si sono integrati. La sfida dunque più difficile che abbiamo di fronte riguarda proprio loro, i giovani che crescono contemporaneamente nell’ambiente familiare che esprime la loro cultura di origine all’interno della nostra tradizione nazionale. Per evitare una vita “divisa” che porta inevitabilmente a tensione sociale, dobbiamo essere pronti a valorizzare quanto esiste di edificante nella loro tradizione, sottolineando – certamente senza sconti – le affinità e i punti di contatto e prevedendo percorsi di integrazione effettiva e piena.
Meno di dieci righe, generiche e qualunquistiche sulle seconde generazioni, quando l'esperienza di altri paesi europei dimostra che è proprio su questo terreno che si misurano le politiche sociali, il futuro di una nazione e la sua tenuta sociale.
Ma la colpa più grave è quella di non prendere nemmeno in considerazione l'idea che questi ragazzi, spesso nati e cresciuti in Italia, al compimento dei 18 anni di età, si ritroveranno ad essere stranieri e senza diritti nel paese in cui sono cresciuti e si sono formati. Si paventa il rischio (reale) di tensioni sociali, ma nulla è detto sul diritto di cittadinanza.

GLI STRUMENTI DELL’INTEGRAZIONE
Il Piano nazionale per l’integrazione deve partire dai risultati conseguiti nelle esperienze di successo finora maturate a livello territoriale, in modo da poterle replicare in un quadro sistematico, razionalizzando le risorse impegnate e riorientando le politiche di settore. La valutazione delle politiche di integrazione richiede l’elaborazione di un sistema di monitoraggio e controllo, attraverso la costruzione di indicatori significativi e congruenti con le priorità declinate nel Piano, che consentano un controllo costante sulla coerenza strategica delle azioni e sul loro grado di realizzazione e di efficacia. L’ottimizzazione nell’impiego delle risorse disponibili, sia nazionali sia comunitarie, esige una programmazione sistemica che sia capace di superare la frammentazione degli interventi, coordinando ed integrando tutti gli strumenti finanziari esistenti.

Banche dati e fondi
Sia le banche dati sia i fondi vedono la compartecipazione di molteplici livelli di governo e per questo richiedono sia sviluppata una più forte integrazione della loro azione. Senza dati non è possibile programmare politiche efficaci per l’integrazione: siamo chiamati a razionalizzare l’enorme mole di informazioni esistenti in materia per riuscire a capire gli andamenti del fenomeno migratorio e predisporre politiche coerenti. Anche per quanto riguarda i fondi, è urgente un maggiore raccordo tra i finanziamenti statali e quelli concessi dagli enti locali e dal privato sociale per evitare sovrapposizioni e definire obiettivi condivisi.
Si cerca di risparmiare su tutto, l'immigrazione non merito un impegno economico, perciò si tenta di metter le mani sui fondi privati di associazioni, fondazioni ed enti del terzo settore.

Portale dell’integrazione
I destinatari del Portale, gestito dall’Istituto per gli Affari sociali, sono tutti gli attori che a vario titolo si occupano di politiche di integrazione - Ministeri, Regioni, Enti Locali, privato e privato sociale - nonché gli immigrati. Il Portale costituirà innanzitutto il luogo di raccolta e scambio delle buone pratiche promosse a livello territoriale. Rivolgendosi direttamente agli immigrati, avrà inoltre funzioni di sportello unico virtuale, favorendo l’accesso a tutte le informazioni istituzionali in modo interattivo. Per strutturare il portale sarà necessaria una attività di coinvolgimento e di raccordo tra le amministrazioni pubbliche e gli operatori del privato sociale, mettendo così in comunicazione le reti già esistenti.


In conclusione.
Questo rapporto documenta bene l'improvvisazione con cui il Governo affronta il tema dell'immigrazione. Venti pagine generiche, zeppe di impostazioni ideologiche securitarie, in cui lo straniero viene visto con sospetto e mal tollerato. Di diritti di cittadinanza neanche a parlarne.
L'esperienza del Sudafrica dimostra che l'impostazione di una società sulla divisione etnica, con diritti e doveri differenti, dura poco, prima o poi gli oppressi rivendicheranno i propri diritti. A quel punto davvero l'immigrazione diventerà un problema ma temiamo che sarà troppo tardi. Se ci può consolare, almeno sapremo a chi dare la colpa.

Asti, 11/6/2010
PIAM onlus

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