venerdì 17 agosto 2012

La riduzione in schiavitù rappresenta stato di necessità per la vittima


E' stata annullata, senza rinvio, la sentenza di condanna nei confronti di una donna che, costretta a prostituirsi, aveva fornito false generalità all’autorità di polizia in sede di identificazione.



Il caso

Un’imputata, accusata della violazione degli artt. 495 e 496 c.p., presenta alla Corte d’Appello di Venezia istanza di revisione della sentenza ex art. 444 c.p.p. pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale di Treviso. La Corte territoriale respinge il ricorso e dispone il proseguimento dell’esecuzione della pena. La donna, adescata con la promessa di un lavoro e alla quale erano stati sottratti i documenti, aveva fornito false generalità nell’ambito di un controllo delle forze dell’ordine ed aveva in seguito patteggiato la pena. Ci si rivolge allora al Giudice di legittimità. L’induzione a mentire sulla propria identità è stata causata, in primo luogo, dal tenore delle minacce subite dallo sfruttatore. Questi, infatti, costringeva la ragazza e le sue compagne di sventura a non usare il loro nome; le donne gli obbedivano, spinte dal timore che potessero essere uccisi i loro famigliari nei paesi d’origine. Lo stato di totale soggezione in cui versavano è dimostrato anche dal fatto che le ragazze abbiano deciso di parlare e denunciare la loro condizione solamente dopo aver saputo che il loro aguzzino era stato processato e condannato. Lo stesso marito della ricorrente era venuto a conoscenza della vera identità della moglie solo dopo l’arresto dello sfruttatore. L’errata applicazione dell’art. 54 c.p., dal momento che la ricorrente avrebbe dovuto essere dichiarata non punibile in ordine alle false dichiarazioni per aver agito in stato di necessità, è stata riconosciuta dai giudici della Suprema Corte (sentenza 19225/12). Infatti, il mentire da parte della ricorrente sulla propria identità in caso di controlli da parte della forza pubblica rappresentava solo una modalità di realizzazione delle condotte imposte dallo sfruttatore. In questo contesto, la menzogna è rappresentabile come una sorta di ‘abito mentale’ indotto dalla complessiva condizione di subordinazione che le ragazze erano costrette a sopportare. In più, la ricorrente era già stata considerata non perseguibile penalmente per aver indotto altre ragazze a prostituirsi, proprio in ragione dello stato di coartazione in cui versava; in considerazione di ciò, a fortiori risulta coerente concludere che anche la sentenza di patteggiamento impugnata avrebbe dovuto essere rivedibile, considerando il comportamento necessitato dal timore per la propria incolumità e per la vita dei parenti.


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