Un amico che è stato fra i volontari impegnati nel centro di Mineo, ci ha inviato queste riflessioni, che pubblichiamo volentieri.
C.A.M. Mineo – Emergenza Migranti
Si definisce nè un C.A.R.A. nè un C.I.E., sulla carta è un semplice Centro Accoglienza Migranti.
Curioso è il suo modo di essere accogliente: per giornali e televisioni è off limit; dall'apertura, avvenuta all'inizio di marzo, è concessa l'entrata solo alla Croce Rossa Italiana (unico responsabile del centro) e all’UNHCR, i quali si occupano esclusivamente dei migranti a cui, dopo essere stati ascoltati dalla Commissione, è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Una mattina a settimana si possono intravedere gli operatori di Save the Children: a sentire i dodici minorenni non accompagnati, è stato fatto ben poco, da marzo i ragazzi sono ancora rinchiusi, quasi nessuno è stato trasferito in un apposito centro per minori (giusto una ragazza maliana), anzi qualcuno diventando maggiorenne è stato letteralmente gettato nel calderone degli adulti e la protezione che poteva ricevere come minorenne è già evaporata nel caldo catanese.
Pur trattandosi di un centro accoglienza per migranti, i quali a ben saputa non conoscono l'italiano, è singolare il fatto che all'interno dell'equipe Croce Rossa Italiana, solamente il 10% parla una lingua straniera. Questo fa comprendere le ulteriori complicanze che possono evolvere nel centro.
Più di 1700 persone vivono al momento all'interno del C.A.M. di Mineo, ne sono passate più di 4000 da marzo.
Vivono nelle 400 villette predisposte un tempo per i militari americani, trasferitisi da tempo nel paesino a 30km di Sigonella. Sono stati dati loro ottimi comfort, sia rispetto agli altri migranti che vivono in tende o in container in altri centri, sia rispetto alla maggior parte dei migranti che vivono nel nostro paese. Ogni villetta ha tre camere da letto, tre bagni e tre vani al piano terra, utilizzati o come camere da letto o come salotti. In tutte le camere c'è l'aria condizionata.
Pur avendo queste comodità “esagerate” per un centro d'emergenza, i suoi abitanti sono oramai stufi delle lungaggini che si protraggono ormai da tempo: la maggior parte da marzo aspetta ancora di essere ascoltata dalla Commissione, sapendo che dovrà poi attendere i risultati almeno un mese e che per molte popolazioni dell'Africa dell'Ovest, l'esito è quasi sempre negativo. Per questi ultimi, rifiutato lo status di rifugiato, l'iter è sempre lo stesso: viene loro assegnato un avvocato d'ufficio il quale, dopo aver fatto ricorso, riesce a farsi concedere per i suoi assistiti un permesso momentaneo di 6 mesi, in attesa del processo.
Il problema più emblematico, che coinvolge l'intera comunità all'interno del campo è l'impossibilità di seguire corsi di lingua (dall'apertura del centro sono stati effettuati dei corsi sporadici grazie alla volontà di alcuni volontari C.R.I. della durata mediamente di un paio di settimane). Gli unici beneficiari sono i bambini, i quali possono seguire delle lezioni elementari grazie sempre all'ausilio di una volontaria C.R.I.
Questo aspetto della lingua porta gravissime conseguenze, una volta usciti dal Centro, quando queste persone sono lasciate in balia di se stessi, senza nessun appoggio: la maggior parte lascia il Centro, ormai esausto, disposto in ogni maniera a riprendersi la propria dignità di donna e di uomo che ha perso una volta giunto in Italia.
Giovani trentenni arrivati da Lampedusa con un sacchetto di plastica blu (unico bagaglio concesso loro da parte degli scafisti sulle coste libiche) lasciano Mineo con una sacca della Croce Rossa Italiana, con in testa solo una città come meta.
C'è Mohammed, diretto a Roma, ha comprato il biglietto del treno, racconta di aver sentito parlare della capitale, dove tanti migranti han trovato lavoro, lui in Pakistan era elettricista, era un dipendente statale, si occupava di fili ad alta tensione e nel tempo libero faceva qualche lavoretto nelle case del vicinato. Parte per Roma, conosce solo la stazione, Termini, non ha altre informazioni.
Quando gli chiedo come farà a mangiare e dormire, mi risponde semplicemente con un sorriso beffardo sulla bocca: ho dormito e mangiato a sufficienza in questo posto, ora provo a vivere in questo paese.
Assan, etiope, ha ricevuto i 5 anni, il giorno del suo risultato c'è stata una grande festa con la sua comunità e tra i suoi vicini, per molti lui ce l'ha fatta, ora che ha la status di rifugiato, avrà una vita più facile. Doveva ricevere un'abitazione, o una camera o un letto dove potersi trasferire ma dopo il risultato ha aspettato 65 giorni senza risposta. Ora è stanco di restare fermo, ha una famiglia in Africa che deve mantenere, è partito per Reggio Emilia, ha sentito da altri vicini che hanno qualche amico in città che si può trovar lavoro: lui in Etiopia era professore di inglese, nei 4 anni passati in Libia, faceva il giardiniere e il guardiano per le ville dei libici. Ora in Italia è ignaro di quello che lo aspetta. Vuole solo lavorare, avere dei soldi da inviare al suo paese, alla sua famiglia.
Sia Mohammed che Assan, non parlano italiano, parlano perfettamente inglese e arabo e sanno già che in Italia, pur parlando due tra le più diffuse lingue al mondo, avranno grosse difficoltà nel trovare un'occupazione.
C'è un gruppo di donne somale ed eritree che da 3 mesi hanno avuto il risultato, è stata loro concessa una protezione sussidiaria: 3 anni. Ma non sanno dove andare, quasi tutte hanno almeno un figlio, ancora in fasce, hanno paura a lasciare la casa e il cibo quotidiano, non hanno più contatti con la famiglia in patria, non possono ricevere soldi e non sanno cosa fare una volta uscite da Mineo; in Libia erano colf, badante, babysitter, cuoca. Ora mi dicono solo Dio sa cosa sarà di noi. Intanto aspettano.
Perchè non vengono istituiti corsi di lingua, o corsi di formazione professionale? La grande Italia, facente parte del G8, che si vende come una delle più grandi economie mondiali, non riesce a gestire corsi per qualche centinaia di donne e uomini che chiedono solo di lavorare e di imparare?
Perchè esistono altre realtà, come i centri S.P.R.A.R., ubicati in diverse cittadine italiane, gestite da piccole associazioni che funzionano? Non sono forse meglio tanti piccoli gruppi di migranti in piccole comunità italiane, invece che un mastodontico centro di accoglienza?
Bisogna comprendere se davvero sta a cuore l'integrazione e sopratutto l'accoglienza. Perchè è di accoglienza che parliamo?!
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