giovedì 13 ottobre 2011

Famiglia Cristiana dedica un bell'articolo al PIAM


PRIMA CLASSE
Da dieci anni il PIAM di Asti fa di tutto per assicurare il meglio a migranti e rifugiati alle prese con storie di dolore. Dalla lotta contro la tratta al progetto avviato a Settime.
di Alberto Chiara - foto di Paolo Siccardi/Sync

Viveva ad Accra, la capitale del suo Paese, il Ghana. Era responsabile di un carcere minorile. Aveva insomma tutto – cultura, senso pratico e status sociale – per poter resistere al fascino illusorio di certe proposte. Invece, no. Anche Fatima Issah accettò di lasciare la sua terra per venire in Europa, inseguendo un generico sogno: «“Avrai un buon lavoro, guadagnerai bene”, mi aveva promesso un giovane uomo d’affari nigeriano capace d’ispirare fiducia».
Era l’agosto 2007. Visto turistico valido tre mesi, aerei, treni, un viaggio vertiginoso che l’ha scagliata in Europa a velocità folle, tipo biglia d’acciaio in un flipper, una tappa dietro l’altra, Lagos, Istanbul, Pristina («Dove mi hanno apposto l’agognato timbro d’ingresso nell’area Schengen»), Tessalonica, Praga, Milano. Quindi a Torino, in auto. «Non conoscevo nessuno», racconta Fatima. «Mi lasciarono riposare un giorno. L’indomani, di sera, mi portarono ad Asti. Mi fecero scendere vicino al cimitero. Lì avrei dovuto prostituirmi fino a raccogliere i circa 50 mila euro per saldare il debito contratto con l’organizzazione. Poi sarei stata finalmente libera di scegliere: diventare a mia volta madame e lucrare sulla vendita del corpo altrui, trovarmi un altro lavoro, sempre in Italia, o tornare in Ghana».
Lei, a dire il vero, optò per una quarta soluzione, non contemplata dagli sfruttatori e a loro ancor meno gradita. «Piansi tutta la notte. Vedendomi disperata, una ragazza nigeriana che “lavorava” sullo stesso marciapiede mi diede un volantino con su un numero di telefono», ricorda Fatima, oggi trentenne. Era quello del Piam, il Progetto integrazione accoglienza migranti. «Mi chiamò alle 6 del mattino», interviene Alberto Mossino, 40 anni, fondatore dell’onlus. «Fatima s’è affrancata, ora è la responsabile di una delle due case protette che abbiamo in Asti, dove adesso sono accolte, con i loro figli, due nigeriane, una cinese e una rumena, alcune finite loro malgrado su un marciapiede, altre schiavizzate da datori di lavoro senza alcun scrupolo».
In dieci anni di vita, il Piam ha seguito con successo 86 vittime della tratta (tra cui pure qualche uomo); tramite l’unità di strada, è stato costantemente accanto alle prostitute, distribuendo profilattici e garantendo, in accordo con l’Asl, esami di controllo. Ha assicurato consulenza legale gratuita a 393 stranieri; ha trovato un’occupazione a 112 donne migranti; ha curato 10 campagne informative; ha elaborato progetti di tutela della salute e di educazione sessuale realizzati in diverse regioni della Nigeria.
Tutto ebbe inizio nel dicembre 2000 quando Alberto Mossino, chimico, analista di laboratorio, e Piero Vercelli, 43 anni, operatore sociale, depositarono lo statuto della neonata associazione. Tempo qualche mese e il 6 marzo 2001, una coraggiosa nigeriana, Princess Inyang Okokon, denunciò chi la sfruttava. Nel tempo, a decine hanno seguito il suo esempio. «La solidarietà migliora il tessuto sociale perché rende più autentiche e consapevoli le relazioni; fa però bene anche all’economia», ragiona Mossino. Che ha fatto due conti: «Gli 86 percorsi di inserimento sono costati 700 mila euro, coperti da finanziamenti degli enti locali e di fondazioni, ma hanno sottratto qualcosa come 5 milioni di euro al business della tratta. Per le azioni a difesa della salute tramite l’unità di strada è stato fin qui necessario spendere 100 mila euro: un buon investimento se pensiamo che allo Stato le cure di una sola persona sieropositiva costano in media 14 mila euro all’anno».
«Abbiamo cominciato quand’era in vigore la legge 40 del 1998, la Turco-Napolitano; chi era in certe condizioni era considerato vittima, la denuncia degli sfruttatori era il traguardo finale di un percorso che aveva come priorità l’aiuto e la messa in sicurezza. Con la Bossi-Fini del 2002 e con il modo con cui viene messa in pratica prevale il volto sospettoso e arcigno dell’autorità», puntualizza Mossino: «La denuncia è diventata condizione indispensabile per avviare un rapporto di protezione. Si fatica a trovare italiani che abbiano il fegato di denunciare i mafiosi che ostacolano il corretto andamento dei loro affari, qui, da noi, con fior di polizia e di magistrati pronti a intervenire, e pretendiamo che delle povere ragazze abbiano il coraggio di rompere con gente spietata, in grado di compiere ritorsioni sui familiari rimasti in patria?». «Lo sa qual è il paradosso?», incalza Piero Vercelli: «i papponi si sono umanizzati mentre s’è disumanizzata la legge».
Lotta alla tratta, dunque. Ma non solo. Fedele alla sua vocazione di dare sempre il meglio a chi nella vita colleziona naufragi, il Piam ha seguito con crescente attenzione di chi arriva in Italia richiedendo asilo politico. «Grazie all’intelligente disponibilità del sindaco, Guido Rosina, abbiamo negli ultimi mesi avviato un progetto a Settime, un paese di 600 abitanti (di cui 100 stranieri già inseriti: maghrebini o cittadini dell’Europa dell’Est)», riprende Alberto Mossino. «Sono arrivate tre famiglie, una somala, una curda turca e una curda siriana, sei adulti e dieci bambini in tutto. In accordo con l’amministrazione comunale abbiamo ragionato su piccoli numeri, su soluzioni abitative dignitose (case e non campi profughi), su progetti di inserimento scolastico, su lavori che abbiano un senso oggi e un possibile futuro domani».
La famiglia curda siriana ha deciso di trasferirsi in Germania. Per gli altri, l’esperienza si sta rivelando un successo. Qualche esempio? Elif e Gürcan, due piccole curde turche, sorridono felici accanto alla maestra Maria Letizia Viarengo, nella scuola elementare di Settime. Il somalo Osman Mahadle Caddow, 58 anni, ha dal canto suo fatto fruttare la propria esperienza. Era il factotum dell’ambasciatore di Mogadiscio a Tripoli, in Libia. Ora lavora con soddisfazione in un campo da golf tra Settime e Asti. L’integrazione si costruisce anche sul green, se occorre.

 

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