giovedì 26 giugno 2014

RACCONTI E TESTIMONIANZE DALLA LIBIA - STRANIERI IN MEZZO ALLA GUERRA CIVILE

RACCONTI E TESTIMONIANZE DALLA LIBIA
STRANIERI IN MEZZO ALLA GUERRA CIVILE

Cosa sta succedendo in Libia?
Perchè scappano tutti?

Proviamo a farcelo raccontare da alcuni testimoni diretti
27 giugno 2014 - Diavolo Rosso - Asti


Gennaio 2013
Emeka parte da Enugu, Nigeria. Ha 1000 dollari con sé ed è diretto a Agadez in Niger. Da lì, poi proseguirà verso la Libia.
Entra in Libia, a El Gatrun, su un pick up guidato dai trafficanti (300 dollari il prezzo, 25 sono i compagni di viaggio).
Nel deserto incontrano i predoni.

E' notte l'autista vede in lontananza le luci dei pick up dei predoni e spegne i fari, poi cambia strada, guida al buio e così riescono a scappare.
Lungo le rotte del deserto i predoni assaltano spesso i convogli dei migranti. E a volte li abbandonano a piedi, soli nel nulla.

Nine immigrants have died and hundreds have been rescued after being abandoned by smugglers in Sudanese-Libyan desert.


Emeka arriva a Sabha. Ogni giorno si reca in un grande incrocio dove aspetta alla ricerca di un ingaggio.
Sono in tanti, tutti stranieri.
I Libici non lavorano, fanno lavorare gli stranieri perchè sanno che hanno bisogno di soldi per continuare il viaggio.
C'è un'economia della disperazione.
In questo senso per i Libici l'immigrazione è davvero una risorsa, mano d'opera quasi a costo zero e in abbondanza.
I Libici caricano i migranti sulla strada, gli fanno fare la giornata di lavoro, (traslochi, giardinaggio, pulizie in casa, ecc.) e poi pagano poco o addirittura non pagano.
Se vengono pagati i migranti devono stare attenti perchè per strada i ragazzi libici li rapinano o li rapiscono per pendere i soldi.
Succede così tutti i giorni.
A volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.

Libya's relative wealth draws many Africans seeking a better life. Often they instead find abuse, imprisonment without charge and even a kind of modern-day slavery.

In Libia circolano molte armi, le hanno distribuite gli inglesi ai ribelli contro Gheddafi durante la rivolta del 2011. Sono pistole Made in Turkey, costano poco, 100 dollari. Adesso ce ne sono tantissime in Libia, tutti sono armati.
Quando Emeka ha lavorato in un autolavaggio, è capitato spesso che aprendo il cruscotto di una macchina, trovava 2 o 3 pistole, lasciate lì, senza problemi.

I migranti a Sabha vivono tutti in un unico quartiere.
Tutti i giorni arrivavano i Libici per rapirli, rubare i soldi e distruggere le abitazioni.
Emeka e gli altri devono sempre scappare.
A volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.

I Libici rapiscono i migranti, poi li fanno telefonare ai loro amici o parenti. I Libici vogliono 500 dollari per liberarli, sennò li ammazzano.
Se sei fortunato hai qualcuno che paga per te o hai dei soldi da parte e puoi pagare. A volte paghi e non ti liberano, molti restano prigionieri per mesi, a volte muoiono o vengono ammazzati come cani.
I Libici sanno che i migranti hanno sempre un po' di soldi perchè lavorano e non spendono quasi niente. Mettono tutti i soldi da parte per andare in Europa. Così i Libici vanno in giro alla ricerca di qualche migrante da derubare.
A volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.

Tutti i giorni Emeka va a cercare lavoro al solito posto sulla strada.
Un giorno insieme a un altro ragazzo nigeriano trova un ingaggio. Li fanno salire dietro ad un pick up, i vetri sono oscurati e non riescono a vedere chi c'è dentro. Il pick up viaggia veloce, non si ferma agli stop, va troppo forte.
Emeka capisce che qualcosa non va, probabilmente li stanno sequestrando, dice al suo amico che sono in pericolo, ma non possono saltare giù dal pick up perchè va troppo forte, poi dopo un pò c'è un grosso incrocio, il pick up rallenta e i due ragazzi saltano giù rotolando, poi scappano di corsa per non essere ripresi.
E tornano sulla solita strada a cercare lavoro.

In quella strada sovente viene la polizia a fare le retate. E i migranti scappano, sempre. Tutti e da tutte le parti. La polizia quando arriva spara. Qualche volta, qualcuno resta ammazzato.
E i migranti scappano. E quando la polizia è andata via, tornano lì a cercare lavoro.
E poi a fine giornata si va a casa. Di corsa, veloci per non essere rapinati.
E in casa arrivano i Libici che picchiano, rapinano e rubano e sfasciano tutto.
Così tutti i giorni.
Ci sono due tipi di Libici: gli Arabi e i Libici neri del Chad. Questi del Chad sono i più pericolosi.

People and Power investigates how migrants trying to reach Europe fall into the hands of Libya's militias.


Un giorno la polizia prende Emeka e lo porta in prigione.
Sono in tanti, si sta malissimo, si mangia poco e male, non c'è acqua, si beve quella dei cessi.
Sono nigeriani, nigerini, ghanesi...
I poliziotti dicono che vogliono 300 dollari, sennò li tengono prigionieri finchè non muoiono.

Allora Emeka pensa che deve scappare. Qualcuno, sopratutto i ragazzi del Niger, dice di aver paura.
Con gli altri e con un pezzo di forchetta, Emeka di notte scava un tunnel sotto il muro, le case dei Libici non hanno grandi fondamenta, posano sulla sabbia.
Scavano per due notti in tanti, di giorno coprono il buco con i materassi per terra.
La seconda notte quando non c'è quasi nessuno di guardia, uno a uno scappano, Emeka è il primo e dopo di lui lo seguono in tanti, Emeka non sa quanti, non si è voltato ad aspettare, è scappato subito in un bosco lì vicino e poi è tornato a casa sua e l'indomani di nuovo sulla strada a cercare lavoro.

Detained migrants complain of mistreatment and discrimination, while guards cite lack of resources.

Giorni dopo, sempre sulla strada a cercare lavoro.
Arriva la polizia con i pick up. I militari sparano e danno la caccia a tutti. I migranti scappano. Emeka insieme ad un ragazzo del Niger prende una strada che porta verso il deserto, la strada è costeggiata da una barriera metallica alta 2 metri, una specie di guard rail messo lì per evitare che le macchine finiscano nel deserto. Si arrampicano e scappano, sono salvi, Emeka e il suo amico.
La polizia gli spara dietro ma i ragazzi ormai sono lontani.

Più tardi tornano sulla solita strada a cercare di nuovo lavoro. Servono soldi per scappare da quell'inferno.
Torna la polizia, si scappa di nuovo.
Questa volta Emeka cambia la direzione di fuga, scappa verso la città, il suo amico del Niger invece corre di nuovo verso il deserto, mentre sta scavalcando la rete metallica la polizia lo raggiunge e gli spara.
Muore così, attaccato ad una grata nel deserto. Poteva esserci anche Emeka.

E poi tutti i giorni tornando a casa dal lavoro, Emeka deve fare molta attenzione, i ragazzi Libici pattugliano il quartiere, sanno che gli stranieri hanno soldi e li vogliono aggredire, rapinare, ammazzare.
A Sabha è stato così per 4 mesi, tutti i giorni.

Un giorno Emeka decide di proseguire verso Tripoli, ma sa che la strada è molto pericolosa, ci sono i ribelli che pattugliano il deserto pronti ad assaltare i convogli che lo attraversano.
Decide di prendere una via secondaria, pensa che sia più sicuro, farà un giro più largo, passerà per piccole città. E ogni volta si ferma per qualche settimana a lavorare. A Hun sta 1 mese.
Fa un po' di tutto, lava le macchine, fa il bracciante nei campi, il muratore...

Arriva Misurata e poi a Tripoli dopo 7 mesi di viaggio in Libia.
Si sposta a Zuwara. Lì c'è il campo dove si sosta nell'attesa di imbarcarsi per l'Europa.
Contatta un Libico che organizza la traversata.
Emeka viene portato in una casa dove starà rinchiuso come un prigioniero con altri uomini, nell'attesa che si parta.
Paga 500 dollari per il viaggio.

Syrian refugees, fearing rising violence in Tripoli, pay thousands of dollars to try to escape to Europe.


9 luglio 2013
Si parte, sono in 30 su una piccola barca, dopo alcune ore di viaggio la barca si ferma, il motore è in avaria, sono tutto seduti rannicchiati molto stretti, non c'è spazio per muoversi. E intanto si imbarca acqua, arriva fino alle ginocchia. Nessuno sa cosa fare.
Cambia il tempo, il mare si fa grosso, le onde sono alte e la risacca li riporta a riva sulla spiaggia.
Sono salvi. Ma si deve comunque provare a ripartire.
Il giorno dopo si riparte, la barca al secondo giorno di viaggio va in avaria. Non c'è acqua, quella che c'è è salata, se la bevi ti fa bruciare la pelle. Il cibo che si sono portati dietro è da buttare via, si è rovesciata una tanica di gasolio e ha impregnato tutte le borse con le scorte alimentari.
Fermi in mezzo al mare.
Arriva un elicottero nella notte e li vede, arriva anche una motovedetta tunisina, poi con il giorno arriva una nave italiana e li porta a Lampedusa.
Salvi.
Emeka ha 23 anni.


La Nuova Provincia – 16 giugno 2014

Niamat Khan, 34 anni
Arriva da un villaggio pachistano collinare al confine con l'Afghanistan, a 100 chilometri da Kabul. «Con la guerra in Afghanistan -racconta Niamat- i talebani in ritirata hanno sconfinato in Pakistan, nell'area dove ero nato e vivevo con la mia famiglia. Abbiamo la stessa lingua e le stesse tradizioni. Ma, appena arrivati, hanno rubato e saccheggiato le case. Poi sono passati alle persone e pretendevano che tutti i ragazzi giovani del mio villaggio e di quelli vicini si arruolassero con loro. Volevano trasformarci tutti in estremisti talebani, ma noi non volevamo. E loro hanno usato le maniere forti». A dimostrarlo, ci sono due segni di spari alla spalla sinistra.
A quel punto la sua famiglia e quelle di tanti altri ragazzi come lui hanno usato tutti i risparmi per farli fuggire, per non farli diventare talebani. «Sono andato a Bassora e di lì in Libia in aereo -prosegue Niamat- Ho trovato lavoro in un'acciaieria ma non mi pagavano e se andavi a chiedere la paga ti minacciavano, ti sequestravano per qualche giorno e ti maltrattavano. Ti insultavano, ti isolavano, ti sputavano addosso e ti dicevano che dovevi lavorare e basta. Praticamente ero diventato uno schiavo». Così la decisione di venire in Italia. Rimanere in Libia avrebbe significato morte sicura, come è capitato a tanti loro amici e connazionali. Cosa si aspetta ora? «La “green card” perchè con quella sei riconosciuto come persona e non come numero o come schiavo. Non posso tornare in patria, perchè sono stato condannato a morte dai talebani. Quindi non posso fare altro che cercare lavoro in Italia o in altro Paese d'Europa».

Adhan Haider
Ha 25 anni ma ne dimostra almeno dieci di più. La sua data di nascita, come per gran parte dei rifugiati a Capriglio è fissata a gennaio del 1989 e questo fa pensare ad un sistema anagrafico in patria molto approssimativo. Arriva da un villaggio del Panjabi, da una famiglia di agricoltori. Dopo anni di crisi economica, di calamità naturali e di frane che hanno fatto perdere i raccolti, Adnan entra a far parte di un partito religioso islamico pachistano. «Ma – sottolinea- non eravamo integralisti.» Ad un certo punto il leader del partito del suo villaggio ha deciso che lui e altri amici sarebbero dovuti andare in Libia a lavorare e guadagnare soli che sarebbero serviti a costruire scuole e moschee in patria.
«Così siamo partiti per la Libia ed è iniziato un incubo -racconta Adhan con la paura ancora negli occhi- Dopo un mese mi hanno accoltellato (mostrando i segni dei tagli da difesa su un braccio n.d.r.), la Polizia libica mi ha picchiato e derubato prima dei soldi che avevo guadagnato, poi del cellulare. Mi hanno diffidato a lasciare la Libia ma non avevo denaro né contatti per farlo. Non sapevo come rimpatriare così, l'unica via di uscita è stato il viaggio sui gommoni». Oggi Adhan non crede più in quello che il partito gli ha inculcato. Vuole lavorare per sé e per la sua famiglia rimasta in patria. Distrutti i suoi sogni, gli ideali politici e religiosi che lo hanno fatto partire vuole restare in Italia per regolarizzarsi e trovare un lavoro onesto.

Sulmann
Ha solo 24 anni ed è il traduttore del gruppo di pachistani caprigliesi. Parla bene l'inglese e ha sicuramente i numeri giusti per pensare ad un riscatto di livello per quanto vissuto finora. Originario della regione del Kashmere, Sulman è figlio di una famiglia di contadini. A 18 anni la sua famiglia è costretta a spostarsi per la guerra fra India e Kashmere. Suo padre, musulmano, è un “illuminato” che crede fortemente nella forza dello studio e tutte le risorse vengono destinate a far frequentare la scuola ai suoi figli. Sulmann, intellettualmente molto dotato, arriva alle soglie dell'università e si specializza in informatica in un'area dove lo studio viene considerato una colpa. Gli studenti come lui erano molto più diffidenti rispetto a quanto predicato dai talebani che facevano incursioni continue, ma erano anche più esposti, dei veri e propri bersagli per gli integralisti.
«I talebani sono andati da mio padre e gli hanno imposto di “donare” almeno uno dei suoi figli alla causa integralista -racconta Sulmann- Ma la nostra è una famiglia pacifista e così sono stati raccolti i soldi e nel giro di pochi giorni è stata organizzata la mia fuga. L'ultima parola è stata quella di mia madre: “Mai nessuno dei miei figli  finirà nella jhad!” La destinazione ultima è Londra dove già vive mio fratello». La scelta della Libia per tutti è guidata dalla vicinanza con l'Italia e dal fatto che Gheddafi aveva sostenuto l'arrivo di manovalanza per le Compagnie che lavoravano nel Paese. Dopo la sua caduta tutti credevano che valesse ancora quella politica, ma si sono scontrati con una realtà ben diversa.
Sulman è stato in Libia 10 mesi prima di potersi imbarcare per l'Italia.
«Ho dormito per strada, sono stato derubato dei miei documenti, delle foto di famiglia, lettere, titoli di studio e abilitazione all'insegnamento, del cellulare, dei pochi soldi che avevo e poi anche dei vestiti. Quando non avevo più nulla mi hanno picchiato e aggredito. Qui non se ne parla, ma in Libia è una vera e propria caccia all'immigrato che viene maltrattato e reso schiavo. Avevo trovato lavoro in una società di software informatici: mi avevano promesso una paga di 800 dinari, ma poi me ne hanno pagati solo 300. Mi sono lamentato e così non mi hanno dato neppure i 300 dinari. Ho lavorato in un negozio di fiori e l'unica paga era il mangiare. Che era anche poco. Ma tanto, qualunque cosa guadagnassi mi veniva rubato perchè i libici vogliono che il denaro rimanga nel Paese, non venga inviato alle famiglie di origine. Dopo la cattura del figlio di Gheddafi la situazione è ulteriormente peggiorata. Un mio amico, al quale la Polizia aveva ritirato il passaporto come me ha insistito per riaverlo indietro. Non ho più avuto notizie di lui».
L'unica via di uscita erano i barconi verso l'Italia pur sapendo che si trattava di, testuale, “a game of death”, un gioco della morte. E' sul barcone che lo ha portato in Italia che ha conosciuto il gruppo di connazionali con i quali vive a Capriglio ora. «E' stata una traversata spaventosa -racconta Sulmann- 52 ore su un barcone con una falla, 52 ore passate a svuotare l'acqua con i secchi, 52 ore passate con la convinzione che saremmo affondati da un momento all'altro. E poi un elicottero ci ha avvistati e una nave della Marina Italiana ci ha salvati. Non sarò mai abbastanza riconoscente verso quei marinai». In Italia, dice Sulmann, dopo tanto tempo «ci sentiamo di nuovo persone e non animali da lavoro.»


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