RACCONTI
E TESTIMONIANZE DALLA LIBIA
STRANIERI
IN MEZZO ALLA GUERRA CIVILE
Cosa
sta succedendo in Libia?
Perchè scappano tutti?
Perchè scappano tutti?
Proviamo a farcelo raccontare da alcuni testimoni diretti
27
giugno 2014 - Diavolo
Rosso -
Asti
Gennaio
2013
Emeka
parte da Enugu, Nigeria. Ha 1000 dollari con sé ed è diretto a
Agadez in Niger. Da lì, poi proseguirà verso la Libia.
Entra
in Libia, a El Gatrun, su un pick up guidato dai trafficanti (300
dollari il prezzo, 25 sono i compagni di viaggio).
Nel
deserto incontrano i predoni.
E'
notte l'autista vede in lontananza le luci dei pick up dei predoni e
spegne i fari, poi cambia strada, guida al buio e così riescono a
scappare.
Lungo
le rotte del deserto i predoni assaltano spesso i convogli dei
migranti. E a volte li abbandonano a piedi, soli nel nulla.
Nine immigrants have died and hundreds have been rescued after being abandoned by smugglers in Sudanese-Libyan desert.
Emeka
arriva a Sabha. Ogni giorno si reca in un grande incrocio dove
aspetta alla ricerca di un
ingaggio.
Sono
in tanti, tutti stranieri.
I
Libici non lavorano, fanno lavorare gli stranieri perchè sanno che
hanno bisogno di soldi per continuare il viaggio.
C'è
un'economia della disperazione.
In
questo senso per i Libici l'immigrazione è davvero una risorsa, mano
d'opera quasi a costo zero e in abbondanza.
I
Libici caricano i migranti sulla strada, gli fanno fare la giornata
di lavoro, (traslochi, giardinaggio, pulizie in casa, ecc.) e poi
pagano poco o addirittura non pagano.
Se
vengono pagati i migranti devono stare attenti perchè per strada i
ragazzi libici li rapinano o li rapiscono per pendere i soldi.
Succede
così tutti i giorni.
A
volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.
Libya's
relative wealth draws many Africans seeking a better life. Often they
instead find abuse, imprisonment without charge and even a kind of
modern-day slavery.
In
Libia circolano molte armi, le hanno distribuite gli inglesi ai
ribelli contro Gheddafi durante la rivolta del 2011. Sono pistole
Made in Turkey, costano poco, 100 dollari. Adesso ce ne sono
tantissime in Libia, tutti sono armati.
Quando
Emeka ha lavorato in un autolavaggio, è capitato spesso che aprendo
il cruscotto di una macchina, trovava 2 o 3 pistole, lasciate lì,
senza problemi.
I
migranti a Sabha vivono tutti in un unico quartiere.
Tutti
i giorni arrivavano i Libici per rapirli, rubare i soldi e
distruggere le abitazioni.
Emeka
e gli altri devono sempre scappare.
A
volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.
I
Libici rapiscono i migranti, poi li fanno telefonare ai loro amici o
parenti. I Libici vogliono 500 dollari per liberarli, sennò li
ammazzano.
Se
sei fortunato hai qualcuno che paga per te o hai dei soldi da parte e
puoi pagare. A volte paghi e non ti liberano, molti restano
prigionieri per mesi, a volte muoiono o vengono ammazzati come cani.
I
Libici sanno che i migranti hanno sempre un po' di soldi perchè
lavorano e non spendono quasi niente. Mettono tutti i soldi da parte
per andare in Europa. Così i Libici vanno in giro alla ricerca di
qualche migrante da derubare.
A
volte sono i ribelli che rapinano, a volte è la polizia.
Tutti
i giorni Emeka va a cercare lavoro al solito posto sulla strada.
Un
giorno insieme a un altro ragazzo nigeriano trova un ingaggio. Li
fanno salire dietro ad un pick up, i vetri sono oscurati e non
riescono a vedere chi c'è dentro. Il pick up viaggia veloce, non si
ferma agli stop, va troppo forte.
Emeka
capisce che qualcosa non va, probabilmente li stanno sequestrando,
dice al suo amico che sono in pericolo, ma non possono saltare giù
dal pick up perchè va troppo forte, poi dopo un pò c'è un grosso
incrocio, il pick up rallenta e i due ragazzi saltano giù rotolando,
poi scappano di corsa per non essere ripresi.
E
tornano sulla solita strada a cercare lavoro.
In
quella strada sovente viene la polizia a fare le retate. E i migranti
scappano, sempre. Tutti e da tutte le parti. La polizia quando arriva
spara. Qualche volta, qualcuno resta ammazzato.
E
i migranti scappano. E quando la polizia è andata via, tornano lì a
cercare lavoro.
E
poi a fine giornata si va a casa. Di corsa, veloci per non essere
rapinati.
E
in casa arrivano i Libici che picchiano, rapinano e rubano e
sfasciano tutto.
Così
tutti i giorni.
Ci
sono due tipi di Libici: gli Arabi e i Libici neri del Chad. Questi
del Chad sono i più pericolosi.
People and Power investigates how migrants trying to reach Europe fall into the hands of Libya's militias.
Un
giorno la polizia prende Emeka e lo porta in prigione.
Sono
in tanti, si sta malissimo, si mangia poco e male, non c'è acqua, si
beve quella dei cessi.
Sono
nigeriani, nigerini, ghanesi...
I
poliziotti dicono che vogliono 300 dollari, sennò li tengono
prigionieri finchè non muoiono.
Allora
Emeka pensa che deve scappare. Qualcuno, sopratutto i ragazzi del
Niger, dice di aver paura.
Con
gli altri e con un pezzo di forchetta, Emeka di notte scava un tunnel
sotto il muro, le case dei Libici non hanno grandi fondamenta, posano
sulla sabbia.
Scavano
per due notti in tanti, di giorno coprono il buco con i materassi per
terra.
La
seconda notte quando non c'è quasi nessuno di guardia, uno a uno
scappano, Emeka è il primo e dopo di lui lo seguono in tanti, Emeka
non sa quanti, non si è voltato ad aspettare, è scappato subito in
un bosco lì vicino e poi è tornato a casa sua e l'indomani di nuovo
sulla strada a cercare lavoro.
Detained
migrants complain of mistreatment and discrimination, while guards
cite lack of resources.
Giorni
dopo, sempre sulla strada a cercare lavoro.
Arriva
la polizia con i pick up. I militari sparano e danno la caccia a
tutti. I migranti scappano. Emeka insieme ad un ragazzo del Niger
prende una strada che porta verso il deserto, la strada è
costeggiata da una barriera metallica alta 2 metri, una specie di
guard rail messo lì per evitare che le macchine finiscano nel
deserto. Si arrampicano e scappano, sono salvi, Emeka e il suo amico.
La
polizia gli spara dietro ma i ragazzi ormai sono lontani.
Più
tardi tornano sulla solita strada a cercare di nuovo lavoro. Servono
soldi per scappare da quell'inferno.
Torna
la polizia, si scappa di nuovo.
Questa
volta Emeka cambia la direzione di fuga, scappa verso la città, il
suo amico del Niger invece corre di nuovo verso il deserto, mentre
sta scavalcando la rete metallica la polizia lo raggiunge e gli
spara.
Muore
così, attaccato ad una grata nel deserto. Poteva esserci anche
Emeka.
E
poi tutti i giorni tornando a casa dal lavoro, Emeka deve fare molta
attenzione, i ragazzi Libici pattugliano il quartiere, sanno che gli
stranieri hanno soldi e li vogliono aggredire, rapinare, ammazzare.
A
Sabha è stato così per 4 mesi, tutti i giorni.
Un
giorno Emeka decide di proseguire verso Tripoli, ma sa che la strada
è molto pericolosa, ci sono i ribelli che pattugliano il deserto
pronti ad assaltare i convogli che lo attraversano.
Decide
di prendere una via secondaria, pensa che sia più sicuro, farà un
giro più largo, passerà per piccole città. E ogni volta si ferma
per qualche settimana a
lavorare. A Hun sta 1 mese.
Fa
un po' di tutto, lava le macchine, fa il bracciante nei campi, il
muratore...
Arriva
Misurata e poi a Tripoli dopo 7
mesi di viaggio in Libia.
Si
sposta a Zuwara. Lì c'è il campo dove si sosta nell'attesa
di imbarcarsi per l'Europa.
Contatta
un Libico che organizza la traversata.
Emeka
viene portato in una casa dove starà rinchiuso come un prigioniero
con altri uomini, nell'attesa che si parta.
Paga
500 dollari per il viaggio.
Syrian refugees, fearing rising violence in Tripoli, pay thousands of dollars to try to escape to Europe.
9
luglio 2013
Si
parte, sono in 30 su una piccola barca, dopo alcune ore di viaggio la
barca si ferma, il motore è in avaria, sono tutto seduti
rannicchiati molto stretti, non c'è spazio per muoversi. E intanto
si imbarca acqua, arriva fino alle ginocchia. Nessuno sa cosa fare.
Cambia
il tempo, il mare si fa grosso, le onde sono alte e la risacca li
riporta a riva sulla spiaggia.
Sono
salvi. Ma si deve comunque provare a ripartire.
Il
giorno dopo si riparte, la barca al secondo giorno di viaggio va in
avaria. Non c'è acqua, quella che c'è è salata, se la bevi ti fa
bruciare la pelle. Il cibo che si sono portati dietro è da buttare
via, si è rovesciata una tanica di gasolio e ha impregnato tutte le
borse con le scorte alimentari.
Fermi
in mezzo al mare.
Arriva
un elicottero nella notte e li vede, arriva anche una motovedetta
tunisina, poi con il giorno arriva una nave italiana e li porta a
Lampedusa.
Salvi.
Emeka
ha 23 anni.
La
Nuova Provincia – 16 giugno 2014
Niamat
Khan, 34 anni
Arriva
da un villaggio pachistano collinare al confine con l'Afghanistan, a
100 chilometri da Kabul. «Con la guerra in Afghanistan -racconta
Niamat- i talebani in ritirata hanno sconfinato in Pakistan,
nell'area dove ero nato e vivevo con la mia famiglia. Abbiamo la
stessa lingua e le stesse tradizioni. Ma, appena arrivati, hanno
rubato e saccheggiato le case. Poi sono passati alle persone e
pretendevano che tutti i ragazzi giovani del mio villaggio e di
quelli vicini si arruolassero con loro. Volevano trasformarci tutti
in estremisti talebani, ma noi non volevamo. E loro hanno usato le
maniere forti». A dimostrarlo, ci sono due segni di spari alla
spalla sinistra.
A
quel punto la sua famiglia e quelle di tanti altri ragazzi come lui
hanno usato tutti i risparmi per farli fuggire, per non farli
diventare talebani. «Sono
andato a Bassora e di lì in Libia in aereo -prosegue Niamat- Ho
trovato lavoro in un'acciaieria ma non mi pagavano e se andavi a
chiedere la paga ti minacciavano, ti sequestravano per qualche giorno
e ti maltrattavano. Ti insultavano, ti isolavano, ti sputavano
addosso e ti dicevano che dovevi lavorare e basta. Praticamente ero
diventato uno schiavo». Così la decisione di venire in Italia.
Rimanere in Libia avrebbe significato morte sicura, come è capitato
a tanti loro amici e connazionali. Cosa si aspetta ora?
«La “green card” perchè con quella sei riconosciuto come
persona e non come numero o come schiavo. Non posso tornare in
patria, perchè sono stato condannato a morte dai talebani. Quindi
non posso fare altro che cercare lavoro in Italia o in altro Paese
d'Europa».
Adhan Haider
Ha
25 anni ma ne dimostra almeno dieci di più. La sua data di nascita,
come per gran parte dei rifugiati a Capriglio è fissata a gennaio
del 1989 e questo fa pensare ad un sistema anagrafico in patria molto
approssimativo. Arriva da un villaggio del Panjabi, da una famiglia
di agricoltori. Dopo anni di crisi economica, di calamità naturali e
di frane che hanno fatto perdere i raccolti, Adnan entra a far parte
di un partito religioso islamico pachistano. «Ma – sottolinea- non
eravamo integralisti.» Ad un certo punto il leader del partito del
suo villaggio ha deciso che lui e altri amici sarebbero dovuti andare
in Libia a lavorare e guadagnare soli che sarebbero serviti a
costruire scuole e moschee in patria.
«Così
siamo partiti per la Libia ed è iniziato un incubo -racconta Adhan
con la paura ancora negli occhi- Dopo un mese mi hanno accoltellato
(mostrando i segni dei tagli da difesa su un braccio n.d.r.), la
Polizia libica mi ha picchiato e derubato prima dei soldi che avevo
guadagnato, poi del cellulare. Mi hanno diffidato a lasciare la Libia
ma non avevo denaro né contatti per farlo. Non sapevo come
rimpatriare così, l'unica via di uscita è stato il viaggio sui
gommoni». Oggi Adhan non crede più in quello che il
partito gli ha inculcato. Vuole lavorare per sé e per la sua
famiglia rimasta in patria. Distrutti i suoi sogni, gli ideali
politici e religiosi che lo hanno fatto partire vuole restare in
Italia per regolarizzarsi e trovare un lavoro onesto.
Sulmann
Ha solo 24 anni ed è il traduttore del gruppo di pachistani caprigliesi. Parla bene l'inglese e ha sicuramente i numeri giusti per pensare ad un riscatto di livello per quanto vissuto finora. Originario della regione del Kashmere, Sulman è figlio di una famiglia di contadini. A 18 anni la sua famiglia è costretta a spostarsi per la guerra fra India e Kashmere. Suo padre, musulmano, è un “illuminato” che crede fortemente nella forza dello studio e tutte le risorse vengono destinate a far frequentare la scuola ai suoi figli. Sulmann, intellettualmente molto dotato, arriva alle soglie dell'università e si specializza in informatica in un'area dove lo studio viene considerato una colpa. Gli studenti come lui erano molto più diffidenti rispetto a quanto predicato dai talebani che facevano incursioni continue, ma erano anche più esposti, dei veri e propri bersagli per gli integralisti.
«I
talebani sono andati da mio padre e gli hanno imposto di “donare”
almeno uno dei suoi figli alla causa integralista -racconta Sulmann-
Ma la nostra è una famiglia pacifista e così sono stati raccolti i
soldi e nel giro di pochi giorni è stata organizzata la mia fuga.
L'ultima parola è stata quella di mia madre: “Mai nessuno dei miei
figli finirà nella jhad!” La destinazione ultima è Londra
dove già vive mio fratello». La
scelta della Libia per tutti è guidata dalla vicinanza con l'Italia
e dal fatto che Gheddafi aveva sostenuto l'arrivo di manovalanza per
le Compagnie che lavoravano nel Paese. Dopo la sua caduta tutti
credevano che valesse ancora quella politica, ma si sono scontrati
con una realtà ben diversa.
Sulman
è stato in Libia 10 mesi prima di potersi imbarcare per l'Italia.
«Ho
dormito per strada, sono stato derubato dei miei documenti, delle
foto di famiglia, lettere, titoli di studio e abilitazione
all'insegnamento, del cellulare, dei pochi soldi che avevo e poi
anche dei vestiti. Quando non avevo più nulla mi hanno picchiato e
aggredito. Qui non se ne parla, ma in Libia è una vera e propria
caccia all'immigrato che viene maltrattato e reso schiavo. Avevo
trovato lavoro in una società di software informatici: mi avevano
promesso una paga di 800 dinari, ma poi me ne hanno pagati solo 300.
Mi sono lamentato e così non mi hanno dato neppure i 300 dinari. Ho
lavorato in un negozio di fiori e l'unica paga era il mangiare. Che
era anche poco. Ma tanto, qualunque cosa guadagnassi mi veniva rubato
perchè i libici vogliono che il denaro rimanga nel Paese, non venga
inviato alle famiglie di origine. Dopo la cattura del figlio di
Gheddafi la situazione è ulteriormente peggiorata. Un mio amico, al
quale la Polizia aveva ritirato il passaporto come me ha insistito
per riaverlo indietro. Non ho più avuto notizie di lui».
L'unica
via di uscita erano i barconi verso l'Italia pur sapendo che si
trattava di, testuale, “a game of death”, un gioco della morte.
E' sul barcone che lo ha portato in Italia che ha conosciuto il
gruppo di connazionali con i quali vive a Capriglio ora. «E' stata
una traversata spaventosa -racconta Sulmann- 52 ore su un barcone con
una falla, 52 ore passate a svuotare l'acqua con i secchi, 52 ore
passate con la convinzione che saremmo affondati da un momento
all'altro. E poi un elicottero ci ha avvistati e una nave della
Marina Italiana ci ha salvati. Non sarò mai abbastanza riconoscente
verso quei marinai». In Italia, dice Sulmann, dopo tanto tempo «ci
sentiamo di nuovo persone e non animali da lavoro.»
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